di Daniele Cassandro (internazionale.it, 6 luglio 2021)
Raffaella Carrà, la diva della tv che prese il nome d’arte da due pittori, il sublime Raffaello Sanzio e il metafisico Carlo Carrà, è stata una delle poche intrattenitrici italiane a guadagnarsi sul campo il titolo, di questi tempi decisamente abusato, di icona. È tecnicamente un’icona perché la sua immagine, grazie alla televisione di cui è stata non solo vedette ma anche innovatrice, è stata diffusa ovunque per cinquant’anni di storia del nostro Paese. Neanche il più snob e insulare degli intellettuali poteva far finta di non conoscerla. Morta a Roma il 5 luglio 2021, Raffaella Carrà è un’icona perché il suo caschetto biondo e il suo sorriso, rimasti immutati per cinquant’anni, sono diventati una specie di geroglifico.
Di quante altre persone famose, chiudendo gli occhi, riuscite a evocare il profilo con pochi tratti veloci? Il suo ritratto potrebbe disegnarlo anche un bambino: un po’ di giallo per i capelli (quella chioma che tornava miracolosamente in ordine dopo ogni giravolta), un solo ampio tratto di penna per il sorriso e due tocchi veloci per quegli occhi vivaci e intelligenti. Era memorabile anche per la sua risata. Anzi, ora che non c’è più è proprio quella che risuona nella memoria: una risata piena, esagerata e contagiosa. Una risata un po’ scomposta, molto romagnola, da donna serena e sicura di sé; spesso accompagnata dalla testa buttata all’indietro, una mossa inconfondibile che ricorreva anche nei suoi balletti. Nell’immaginario cinematografico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta la donna sessualmente libera era sempre straniera. Le fantasie degli italiani erano piene di svedesi, di americane, di tedesche e di inglesi, donne che spesso erano ritratte come seduttrici, ammaliatrici o semplicemente come rovinafamiglie. Anita Ekberg, Sylvia ne La dolce vita di Federico Fellini, era il prototipo della straniera libera e sessuata più che sessualizzata, una forza della natura slegata dalla morale cattolica, una superdonna a metà tra Alice nel paese delle meraviglie e un’amazzone del sesso. L’opposto della scialba e sottomessa Emma (Yvonne Furneaux), la fidanzata (italiana) di Marcello Mastroianni imprigionata nelle sue aspettative piccolo-borghesi. La bella straniera che travolge e seduce il maschio italiano è un topos che rimane vivo nella commedia all’italiana più o meno scollacciata per tutti gli anni Settanta e Ottanta. La donna italiana è madre, moglie e sorella; la straniera è amante, compagna di avventure e depositaria di impensabili trasgressioni.
La prima italiana a presentarsi al pubblico televisivo come donna sessualmente liberata, come donna pronta a scegliere anziché rassegnata a essere scelta, è stata Raffaella Carrà. Certo, c’erano le grandi cantanti. Mina prima di tutte, poi Milva, Ornella Vanoni e Patty Pravo, che con le loro esibizioni, il loro stille e le loro canzoni hanno contribuito a svecchiare l’immagine della donna italiana. Ma erano cantanti, e il loro spazio nell’immaginario era ben preciso e circoscritto. Raffaella Carrà viveva nello specifico televisivo, nasceva come quella che con un termine ancora ottocentesco veniva definita soubrette: una cantante, ballerina e intrattenitrice. Una figura che con il tempo si è evoluta ed è diventata quella della presentatrice. Nella tradizione del varietà, della rivista, del cafè chantant, del tabarin, il presentatore è stato sempre un uomo. Raffaella Carrà è riuscita a guadagnarsi un proprio spazio unico. Non si è solo esibita, ma è stata capace di fare tv come presentatrice, come autrice e come ideatrice di format. E quando le cose non andavano come voleva era pronta a fare la valigia e a partire: in Spagna prima e in America Latina poi. La vera rivoluzione sessuale di Raffaella Carrà non è stata tanto nell’ombelico o nelle mosse del Tuca Tuca, ma negli spazi che è riuscita a conquistare, sia nell’immaginario nazionale sia nel suo lavoro. La sua morte, oggi, sembra il tramonto di un’epoca, di quella che con una punta di disprezzo chiamiamo “televisione generalista”, ma che in realtà è stato un fortissimo collante tra generazioni e classi sociali diverse.
Raffaella Carrà è anche, notoriamente, un’icona gay. Di più: è un’icona gay che ci permette di fare una volta per tutte chiarezza su cosa significhi questa espressione, anche questa più che mai abusata. Anzitutto la prima regola: non si sceglie di essere icone gay, ma si è scelti da un’intera comunità che vede in te qualcosa di inafferrabile in cui specchiarsi. La seconda regola è quella del tormento, del dolore, dell’essere divorati dalla propria arte. Come Judy Garland, come Maria Callas, come Umm Kulthum, come Dusty Springfield. Raffaella Carrà, però, è stata moderna anche in questo e si è permessa di contravvenire a questa regola aurea: la sua gayezza è tutta nell’assenza di lati oscuri, nel sorriso, nei costumi sexy e stravaganti, e nelle canzoni che suonavano innocue e divertenti per il pubblico familiare ma erano pieni di messaggi cifrati per il mondo lgbt+. Mi spendo tutto è un suo pezzo del 1981, che fu sigla della trasmissione Millemilioni. Il testo, scritto da Gianni Boncompagni, e l’interpretazione della Carrà ne fanno, per le persone lgbt+, una specie di inno in codice alla favolosità e all’orgogliosa esibizione della propria differenza: «Son pazza, lo ammetto / Se esco metto sempre quel berretto / Mi tingo, mi trucco, come se avessi in faccia colla e stucco / Ascolto il concerto o giro per vetrine giù in città / Mi spendo tutto con questo finimondo che ci sta». Gay, travestite, trans e drag queen non potevano non cogliere il messaggio in codice, così in bella vista tra le righe della sigla di una trasmissione per famiglie. E poco importa se, nelle intenzioni di Raffaella Carrà o di Boncompagni, ci fosse o meno questo sottotesto: la comunità lgbt+ se l’è preso e lo ha fatto suo.
Come ha fatto sue Tanti auguri, A far l’amore comincia tu e il Tuca Tuca. L’incoronazione di un’icona gay è anzitutto un atto di appropriazione. Quello di favolosità è un concetto tutt’altro che superficiale, soprattutto a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Favolosità era una parola rivendicata dai movimenti lgbt+ italiani: significava vivere la propria sessualità alla luce del Sole, senza paura. Aveva un valore anche molto politico, di visibilità. È per questo che, nelle serate romane di Muccassassina, la sala della dance più pop e commerciale si è sempre chiamata “Sala Carrà”. Ed è per questo che in ogni Pride italiano di cui ho memoria si sono sempre suonate a tutto volume le sue canzoni. Disquisire su quanto questi valori e questi sottotesti politici fossero voluti, ricercati o rivendicati dalla stessa Raffaella Carrà non è interessante. Sicuramente in diverse occasioni ha espresso solidarietà alla comunità lgbt+ e, soprattutto nell’ultimo decennio, è stata molto visibile come alleata della causa. Ma, come spesso accade con le icone gay, il suo aspetto più dirompente e davvero liberatorio è in tutto quello che le persone hanno voluto vedere in lei, più che in quello che lei può aver detto o fatto. Raffaella Carrà, come le vere icone gay della Storia, è soprattutto un catalizzatore di energie, di discorsi, di storie che le crepitano intorno come se fossero elettrici. Parafrasando Raffaella è mia di Tiziano Ferro – canzone estremamente rivelatrice, che lui ha cantato molto prima del suo coming out –, la comunità lgbt+ può dire, oggi più che mai, “Raffaella è nostra”. E la risposta di Raffaella possiamo immaginarla: una risata fragorosa e liberatoria delle sue.