di Guia Soncini (linkiesta.it, 2 maggio 2021)
Trenta primo maggio fa, nel 1991, Elio e le storie tese decidono di fare ciò che la platea dal vivo del primo maggio preferisce. Non canzoni, ma predicozzi di bene. Mentre elenca i guai del Paese, a un certo punto Elio incita la folla a cantare con lui «Ti amo, Ciarrapico» (se non vi ricordate chi fosse Ciarrapico è perché i cattivi che alla folla piace linciare scadono meno velocemente del latte fresco, ma più del tonno in scatola). La Rai nel secolo scorso sapeva fare la Rai, e certo non si metteva a telefonare a giovani tribuni della plebe in un’epoca in cui chiunque ha in casa telecamere e l’intenzione di usarle; certo non si metteva a supplicare continenza da gente il cui mestiere è prendere like con l’incontinenza.
La Rai nel ’91 si limitava a passare la linea a Vincenzo Mollica, sottopalco, dicendogli d’intervistare Ricky Gianco e facendo senza grandi disturbi sparire la performance di Elio. Chissà se qualcuno se ne scandalizzò, all’epoca: in piazza San Giovanni c’era già la platea dei pronti all’indignazione che trent’anni dopo avrebbe affollato i social, ma senza i rilanci e i cuoricini l’indignazione deperiva prima di tornare a casa. E i giornali non la riprendevano. Erano anni fortunati. Su Repubblica le recensioni televisive le scriveva Beniamino Placido. Che non citò nello specifico l’esempio di Elio, ma fece questa sintesi dell’andazzo, che ditemi se non è impeccabile anche per descrivere lo scandalo di turno nel primo maggio di trent’anni dopo: «C’erano tanti gruppi musicali, tante orchestre, tanti cantanti. Tanti giovani ad ascoltare. C’erano le tre reti televisive che si alternavano per riprendere il tutto. E c’era lui, Vincenzo Mollica, che teneva il filo delle interviste. Sempre puntuali e garbate. Ma in qualche momento ho visto l’imbarazzo. In presenza di certi cantautori arrabbiati che, prima di intonare la loro canzone, volevano urlare al microfono la loro lezione al sindacato. Capisco l’imbarazzo di Mollica. Erano lezioncine politiche di una ingenuità disarmante. Con voce tonante il cantautore arrabbiato ricordava al sindacato il suo dovere di combattere. Per chi? Contro chi? Ma per i buoni, perbacco, e contro i cattivi. Per il Bene contro il Male. Perché lui, il Male, il nemico, lo sappia. Che sia avvertito, intanto. Capisco l’imbarazzo».
Oggi, Twitter è pieno di elogi sperticati al marito della Ferragni, che non solo ha fatto il suo discorsetto introdotto, giuro, dalle parole «vi decanterò alcuni aforismi» (sì, lo so che per fare il tribuno del popolo non devi essere un intellettuale, ma è persino madrelingua, come diavolo è possibile che l’Italiano gli sia così alieno?); ma che, culmine d’eroismo, ha pure pubblicato la telefonata in cui dirigenti Rai (il Male) avevano fatto il loro lavoro: dirgli che c’è una linea editoriale, e che questa linea editoriale non prevede che tu sciorini i tuoi rinfacci in una produzione d’intrattenimento Rai come fosse una diretta Instagram dal terrazzo di casa tua (il terrazzo del Bene). I politici, con quello strazio che Roberto Bolaño chiamava «il discorso vuoto della sinistra», invece d’irritarsi perché i dirigenti Rai sono stati inefficienti nell’imporre a un ospite il rispetto della linea editoriale, fanno gli indignati perché la Rai ha provato (assai goffamente) a fare il proprio mestiere. Da Letta a Zingaretti, da Di Maio a Provenzano, è tutt’un invocare licenziamenti di gente che ha osato provare a fare la tv, quel posto che si distingue da un videocitofono perché non filma e trasmette tutto ciò che di lì passa. Si chiamava «linea editoriale», quando esisteva la tv.
Naturalmente Twitter la linea editoriale la chiama «censura», e quindi oggi lo scandale du jour è tutt’un «ha fatto bene a pubblicare la telefonata in cui hanno chiesto di censurarlo», giacché il collegio di Twitter è persino meno madrelingua del suo degno eletto, e crede la censura sia una cortesia che il censore chiede al censurato, un po’ come il posto a sedere sul metrò se sei incinta. Mentre il marito della Ferragni diventa l’eroe del giorno perché sì, è sgrammaticato, è maleducato, è un maramaldo che pubblica la telefonata dei dirigenti Rai – giacché, nell’anno dell’Instagram 2021, tra lui e la tv quello potente è lui e non ha il buongusto di non farlo pesare – ma lo è in nome e per conto dei buoni, del bene, della battaglia (ogni cuoricino è battaglia, in un’epoca senza vere guerre). Monsieur Ferragni viene acclamato come il figlio naturale di Marcantonio e di Rosa Luxemburg, di Christopher Hitchens e di Carla Lonzi, di Carmelo Bene e di Joan Baez, e nessuno sembra accorgersi di quanto somigli a Mia Farrow nel documentario su Allen, quando registra le telefonate con Woody e poi ce le vende come le prove che nelle loro conversazioni lei era sé stessa sestessamente e lui era uno stronzo che di sicuro la stava registrando.
Mentre i poveri dirigenti Rai gli parlavano di «contesto» (dirigenti Rai, ho un libro da regalarvi: contesto l’è morto, l’aveste letto lo sapreste), e lui alzava la voce: quindi state dicendo che ci sono contesti che cambiano la frase «se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno», e loro non osavano dirgli ma ragazzo mio, com’è che capisci sempre il cazzo per l’equinozio, hai più tatuaggi che sinapsi; e nessun Beniamino Placido liquidava la lezioncina d’ingenuità disarmante per ciò che era, e l’Internet lo acclamava perché, ehi, pensiamo tutti che arrostire un figlio gay sia una brutta brutta cosa, è il caso di sottolinearlo e ribadirlo, diamine, sennò mica si capisce che siamo i buoni. Mentre accadeva tutto questo, io pensavo a Beniamino Placido, la cui cronaca di quel primo maggio 1991 aveva come punto d’arrivo proprio l’anno giusto, trent’anni dopo, e dentro c’era persino il contesto: «Ma consideri il contesto, Mollica. Quei giovani, quei lavoratori in piazza San Giovanni avevano fatto una passeggiatina per le strade del quartiere, nella mattina. Forse hanno sognato di poter venire ad abitare anche loro a Roma, da quelle parti. In quell’onesto, modesto quartiere dove Moravia ambientò La Romana (che era una popolana). Forse hanno scoperto, curiosando, che le case popolari da quelle parti costano cifre da capogiro; centinaia e centinaia di milioni. Che anche loro in realtà potrebbero mettere da parte. Se solo si decidessero a lavorare senza interruzione loro e i loro familiari fino al 2021, almeno».
Ma, più ancora, pensavo alla povera Chadia Rodriguez, cantante a me ignota che ieri sul palco è rimasta a tette di fuori (ma tette di sinistra – con sopra disegnata la bandiera arcobaleno – mica robaccia da Colpo grosso) e poteva ragionevolmente pensare d’esser lei lo scandale du jour, e invece macché, arriva un cantante senza canzoni che pubblica un video d’una telefonata, e le tue povere tette vengono oscurate dall’equivoco tra censura e linea editoriale, e dalla scandalizzata sorpresa dell’inattrezzata platea convinta che la tv sia il regno dello spontaneismo: se non dici tutto quel che Tourette ti suggerisce, è censura. Più di tutto, però, pensavo a Daria Bignardi. Che otto anni fa, avendo ospiti in tv Elio e i suoi compari, fece loro vedere le immagini d’epoca del momento «Ti amo, Ciarrapico», e chiese loro come avessero preso la brusca interruzione. Ed Elio, col disprezzo per l’ipocrisia da posizionamento che può avere solo chi non ha un bilancio familiare legato ai cuoricini, rispose: «Noi contentissimi, perché in quel modo passavamo come dei martiri».