di Viola Stefanello (wired.it, 24 aprile 2021)
Novanta giorni per prendere forse la decisione più complessa della propria carriera: era questa la sfida che si prospettava per l’Oversight Board, il colossale comitato di esperti assemblato da Facebook per valutare indipendentemente le proprie decisioni più controverse in materia di moderazione dei contenuti che si trova a dover decidere se riabilitare il profilo di Donald Trump. Il 45esimo presidente degli Stati Uniti è infatti stato espulso da Facebook e Instagram – oltre che da altre grandi piattaforme che non fanno capo a Mark Zuckerberg, come Twitter – dopo l’assalto al Campidoglio ad opera di centinaia di suoi sostenitori il 6 gennaio, che aveva portato a cinque morti.
“Riteniamo che i rischi di consentire al presidente di continuare a utilizzare il nostro servizio siano semplicemente troppo grandi”, aveva spiegato all’epoca Zuckerberg. “Pertanto, stiamo estendendo il blocco che abbiamo posto sui suoi account Facebook e Instagram a tempo indeterminato e per almeno le prossime due settimane fino al completamento di una transizione pacifica del potere”. Il 21 gennaio, poi, Facebook aveva annunciato che sarebbe stata l’Oversight Board a decidere cosa ne sarebbe stato dei profili di The Donald, soppesando Diritto internazionale e termini d’utilizzo dell’azienda. Come accaduto anche per gli altri casi presi in esame, tra i venti membri che compongono il comitato – tra cui spiccano professori, giornalisti ed ex primi ministri di Paesi diversi – ne sono stati scelti cinque a caso, tra cui uno statunitense, per raggiungere una decisione che sarà poi sottoposta alla Board nella sua interezza.
Al di là delle ripercussioni per la politica statunitense e per Trump come individuo, la decisione rappresenta un test senza precedenti sia per Facebook sia per i tanti leader che, dal Brasile alle Filippine, negli ultimi anni hanno consolidato il proprio potere anche grazie a un uso spregiudicato dei social network. Il comitato si era dato tre mesi, entro fine aprile, per deliberare. Ci vorrà, invece, qualche altra settimana. Il ritardo, hanno spiegato, è dovuto alla mole impressionante di commenti – oltre novemila – arrivati dagli utenti interpellati sulla sospensione di Trump, che l’Oversight Board intende leggere con attenzione. Nel frattempo, anche gli osservatori più attenti faticano a prevedere chi l’avrà vinta tra Facebook e l’ex presidente.
Delle regole troppo vaghe?
Finora l’Oversight Board ha dato un verdetto rispetto a cinque casi relativi a specifici contenuti che erano stati rimossi da Facebook, ribaltando la decisione della piattaforma in quattro di questi cinque casi. Sono due i principi che segue: un forte impegno per la libertà d’espressione da una parte, e una grande enfasi sul fatto che Facebook abbia reso le sue politiche sufficientemente chiare per gli utenti o meno dall’altra. Spesso, infatti, la compagnia di Menlo Park è stata criticata per l’opacità con cui le sue regole vengono applicate: in gran parte dei casi, quando un proprio contenuto viene rimosso è difficilissimo capire quale regola sia stata infranta, come evitare di infrangerla nuovamente, e per quale motivo il proprio post sia stato colpito mentre tantissimi altri, anche molto più preoccupanti, rimangono al proprio posto. “Questo è un segnale che la Board vuole inviare a Facebook. Chiedono che alle persone siano fatte presenti le regole esatte”, ha spiegato Kate Klonick, che ha scritto un profilo del comitato per il New Yorker, “in modo che quanto meno abbiano la sensazione che dietro alla decisione ci sia un processo sensato, e non soltanto una scatola nera che li censura”.
Anche nel caso di Trump è probabile che la Board cominci con il domandarsi se le politiche di Facebook fossero sufficientemente chiare in merito e se la compagnia le abbia applicate in modo equo, prima di addentrarsi in un ancor più spinoso dibattito sul bilanciamento tra libertà di espressione e rischio di violenza. Che Trump fosse stato più volte avvisato dalle piattaforme di star giocando con il fuoco è indubbio. Come ha ammesso anche Zuckerberg, per anni la compagnia “ha consentito al presidente Trump di utilizzare la piattaforma coerentemente con le sue regole, a volte rimuovendo contenuti o etichettando i suoi post quando ne violano le politiche. Questo perché crediamo che il pubblico abbia diritto al più ampio accesso possibile ai discorsi politici, anche ai discorsi controversi”. Eppure, spiega il fondatore di Facebook, i fatti del 6 gennaio 2021 hanno cambiato le carte in tavola: “il contesto attuale è ora fondamentalmente diverso, e implica l’uso della piattaforma per incitare un’insurrezione violenta contro un governo democraticamente eletto”.
“Per quanto riguarda il processo decisionale di Facebook, è vero che per gli utenti spesso non è davvero chiaro dove vengano tracciati i confini”, ha detto a Politico il professor David Kaye, della University of California, Irvine. “Ma questo non si applica davvero a Trump. Per mesi tutte le piattaforme gli hanno sostanzialmente detto molto chiaramente che stava arrivando al limite, se non oltrepassandolo”. Della stessa idea è la professoressa Evelyn Douek, che insegna alla Harvard Law School: “Ci sono stati anni di battaglie tra Facebook e anni di contestazioni attorno alla presenza di Trump sulla piattaforma. Non si può assolutamente dire che non avesse idea che stesse violando le politiche di Facebook”.
Gli interessi di Facebook
Una cosa che l’Oversight Board potrebbe esaminare attentamente, però, è la chiarezza della regola di Facebook che vieta l’incitazione alla violenza – un punto cardine della decisione di espellere Trump a gennaio scorso. Secondo il regolamento, la compagnia si arroga il diritto di “rimuovere il linguaggio che incita o facilita la violenza grave o quando riteniamo che vi sia un reale rischio di danni fisici o minacce dirette alla sicurezza pubblica”. Il testo aggiunge inoltre che, in questi casi, Facebook può prendere in considerazione il contesto in cui emerge tale linguaggio – per esempio, se la fama dell’utente che incita alla violenza aumenta il rischio.
Il problema per Facebook, in questo caso, non è tanto che la rimozione di Trump non sia giustificata in base ai propri termini d’uso: è che i post del 45esimo presidente prima e durante l’assalto al Campidoglio non erano più gravi di tante altre affermazioni incendiarie che erano apparse sul suo profilo negli anni precedenti senza ripercussioni. Ciò potrebbe danneggiare la posizione di Facebook di fronte alla Board, che potrebbe guardare con sospetto al fatto che la società abbia improvvisamente adottato un’interpretazione più ampia dei propri termini d’uso nel giudicare i post di Trump a partire dal 6 gennaio.
Il fatto, come sottolinea Evelyn Duek, è che evidentemente una delle cose che sono cambiate è “il contesto politico, dato l’imminente arrivo dei democratici alla presidenza e al Congresso, ovvero gli organi che presto si troveranno a legiferare su Facebook”. “Che la decisione di Facebook sia giusta o meno”, ha aggiunto la professoressa Duek, “questi fattori sollevano dubbi sulla legittimità della decisione – se sia stata presa nell’interesse pubblico o nell’interesse di Facebook. Questo è esattamente il genere di questione per cui è stato creato un organo di controllo e bilanciamento indipendente”.
Un precedente che preoccupa
Se finora il comitato ha votato nella maggior parte dei casi per ripristinare i contenuti rimossi da Facebook, c’è da dire che nessuno di questi era lontanamente equiparabile, per entità e conseguenze, al caso di Trump. In primis perché è il primo a coinvolgere direttamente un leader politico – accusato, tra l’altro, di aver istigato un attacco diretto contro il simbolo centrale della democrazia nel proprio Paese. In secondo luogo perché tutte le controversie prese in esame riguardavano la decisione di rimuovere specifici contenuti – una foto, un post – e non un intero account.
Della straordinarietà delle circostanze è consapevole Nick Clegg, vicepresidente degli Affari Globali di Facebook, che si dice “molto fiducioso” che la Board confermerà la decisione di sospendere l’account di Trump. “La nostra decisione è stata presa in circostanze straordinarie: un presidente degli Stati Uniti che fomentava attivamente un’insurrezione violenta progettata per ostacolare la transizione pacifica del potere; cinque persone uccise; legislatori in fuga dalla sede della democrazia”, ha scritto. “Questo non è mai successo prima e speriamo che non accada mai più. È stata una serie di eventi senza precedenti che richiedeva un’azione senza precedenti”.
Ciò non toglie che in molti – dal partito di Narendra Modi ad Angela Merkel – si dicono timorosi del precedente che bandire per sempre Trump da Facebook rappresenterebbe. “Che si creda che la decisione sia giustificata o meno, molte persone sono comprensibilmente a disagio all’idea che le aziende tecnologiche abbiano il potere di vietare i leader eletti”, ha riconosciuto Nick Clegg. “Molti sostengono che le aziende private come Facebook non dovrebbero prendere queste grandi decisioni da sole. Siamo d’accordo. Sarebbe meglio se queste decisioni fossero prese secondo quadri concordati da legislatori democraticamente responsabili. Ma in assenza di tali leggi, ci sono decisioni che non possiamo evitare”, ha aggiunto Clegg.
Il bilanciamento
Il fatto che la decisione sia ora in mano a una commissione di esperti imparziali che, per formazione, attribuiscono un’enorme importanza al diritto d’espressione, non è necessariamente una buona notizia per Trump. “Quando si tratta di libertà d’espressione, chi si occupa di diritti umani non guarda soltanto alla libertà di fornire informazioni, ma anche quella di cercarle e riceverle, il che fornisce nuovi strumenti per pensare all’impatto che la parola può avere sugli altri”, ha spiegato a Politico il professor Kaye. Ciò che la legge sui diritti umani fa, quando si tratta di libertà d’espressione, è non solo la libertà di fornire informazioni, ma anche la libertà di cercarle e riceverle, e fornisce una sorta di quadro per pensare all’impatto che la parola può avere sugli altri “, ha detto Kaye.
In altre parole, com’è quasi sempre il caso in Giurisprudenza, è una questione di bilanciamento. A spiegarlo è stato anche uno dei membri stessi della Board, l’ex caporedattore del Guardian Alan Rusbridger. Se, infatti, alcuni dei casi in cui il comitato ha deciso di dare torto a Facebook cadevano nella zona grigia del “diritto di non offendere”, ha affermato in un’intervista, “chiaramente un caso in cui la libertà di parola di qualcuno causa danni, e non soltanto offesa, va trattato in modo diverso”. Come, nello specifico, il comitato deciderà di trattarlo, lo scopriremo tra novemila commenti.