di Iuri Maria Prado (linkiesta.it, 20 novembre 2020)
«La politica». «E ora vediamo la politica». «E la politica cosa fa?». «La politica dovrebbe intervenire». «La politica si metta d’accordo». Non è frasario esclusivo dell’intrattenimento trash, e ormai quella dicitura – «la politica» – è adoperata dappertutto. C’è il conto dei morti, il video degli intubati, il tweet dell’influencer anti-negazionista, l’intervista al virologismo lottizzato e poi un po’ di Trump, un po’ di Ronaldo, un po’ di meteo e infine lei, «la politica». Quell’uso disinvolto, meccanico, compiacente di una qualificazione così divagatoria denuncia un riduzionismo plebeo non migliore rispetto a quello che al bar bestemmia contro il solito magna-magna, con «la politica» che si risolve in questa cosa insieme adulata e detestabile fatta di auto blu e gente onorevole, da sputazzare o alla quale rivolgersi chiedendo «diritti» secondo che adempia bene o male al ruolo di onestà cui è stata officiata.
Il fenomeno è osceno indipendentemente dal fatto che risuoni nella lamentazione verso «la politica» ineluttabilmente marcia, corrotta, arraffona (salvo quando si tratta, appunto, di cavarne qualsiasi utilità): è già solo il presupposto, già solo interpretare le cose intorno immaginando che ce ne sia una capace di essere chiamata così, «la politica», a svelare quell’oscenità essenziale, la brutalità della mozione psicologica che inquadra in quel modo il consorzio civile e la scena pubblica in cui esso si articola.
La sanità, il Pil, l’Europa, i migranti… «e adesso passiamo alla politica», con il pastone del tempo passato (un senso proprio l’aveva) che si destruttura nella moltiplicazione dei talk che contrappongono la politica ai bisogni dei cittadini, la politica ai problemi dell’infanzia, la politica alle istanze dei territori, la politica alle ragioni dei disoccupati, la politica alle esigenze di sicurezza delle periferie: in breve, «la politica» alla «società», che ovviamente «attende risposte» (perlopiù sono sussidi e prebende) e ha il suo bel diritto di ottenerne. In questo circuito moralmente corrotto e culturalmente servile, inutile dirlo, «la politica» non trova nemmeno per caso una possibilità di emenda, e continua a interloquire nell’interfaccia con una realtà altrettanto balorda – «noi» – elevata al rango di una turba cui è attribuito tutt’al più titolo per «chiedere», e facoltà di sedizione in caso di mancato riscontro. C’è qualcosa di peggio della politica «onesta», ed è «la politica», questa madre di quella.