“La seconda guerra civile americana”, il film di Joe Dante che ha anticipato tutto

di Giulio Zoppello (wired.it, 6 novembre 2020)

Un Paese diviso, un politico populista che vuole tenere fuori i migranti e i rifugiati amato dalla Destra militarizzata, suprematista e intollerante, mentre i mezzi d’informazione invece d’informare inseguono lo share e propagano false notizie, con il fronte liberal confuso e indeciso. In mezzo, una conflittualità sociale immensa, minoranze infuriate ed emarginate, politici inetti, cittadini armati, rivolte e la vecchia contrapposizione dei tempi della Guerra Civile che torna a palesarsi. Vi suona familiare? Ebbene, non stiamo parlando di questi quattro anni di presidenza Trump, né di quel clima infuocato che ha scosso (e continua a scuotere) gli Stati Uniti quest’anno, nei giorni delle elezioni più dibattute della storia.

Hbo
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Stiamo parlando di un film, La seconda guerra civile americana, uscito per la Hbo nel 1997, firmato da uno dei registi più irriverenti, visionari e sottovalutati del suo tempo: Joe Dante. Molti lo conoscono per Piraña, Gremlins, Small Soldiers, film fantasiosi e divertenti, in cui però vi era sempre – sotterranea – la critica sociale, il dipingere l’America come un Paese violento, schizofrenico, militarista, dietro la patina borghese. La seconda guerra civile americana visto oggi appare uno dei film più profetici e anche inquietanti del suo tempo, di certo un’opera che si faceva forte di una lucidità di analisi e di sguardo che all’epoca non furono abbastanza prese in considerazione.

La sceneggiatura, firmata da Martyn Burke, vedeva gli Stati Uniti ormai completamente cambiati dalle ondate migratorie. Carestie, guerre, crisi economiche avevano spinto sempre più stranieri nel Paese, rendendo per esempio Rhode Island una gigantesca comunità cinese, Los Angeles dominata da latinos e afroamericani, l’Alabama con un numero sempre più alto di indiani e pakistani, il Nevada con una popolazione quasi interamente messicana. In una situazione così particolare, a un anno dalle elezioni, il governatore del piccolo Stato dell’Idaho (uno di quelli che anche in queste presidenziali del 2020 conta quasi nulla) rifiutava di accogliere dei profughi di guerra di origine pakistana e chiudeva i confini, cercando così di accaparrarsi i voti della Destra xenofoba e suprematista. L’evento veniva gonfiato, rendendo il presidente degli Stati Uniti (un uomo debole e manovrabile) facile preda dei “falchi” alla Casa Bianca, e innescando una contrapposizione sempre più accesa tra il piccolo Stato ed il governo centrale. Alla fine, a causa delle fake news dei media, di politici e militari inetti, di una conflittualità razziale e sociale mai risolta, il Paese sarebbe sprofondato nel caos di un secondo conflitto armato.

La seconda guerra civile americana all’epoca fu salutato come un bel film di fantapolitica e di critica sociale, grottesco, divertente, ma anche molto intelligente. La fine degli anni Novanta era un’epoca in cui l’immigrazione da Messico, Sudamerica e Asia aveva raggiunto cifre mai viste prima, con grandi polemiche e l’inizio della costruzione di quel Muro al confine con il Messico su cui Trump ha edificato uno dei mantra della sua politica. Ebbene, Dante nel suo film ci mostrava la risposta di quella che viene definita “America profonda” a tutto questo, di quell’America che non finisce quasi mai nei film o nelle serie tv, l’America degli Stati centrali, delle grandi pianure, l’America della classe operaia bianca, conservatrice per ciò che riguarda le proprie tradizioni e il proprio credo politico.

Il governatore dell’Idaho (un bravissimo Beau Bridges) cercava l’appoggio di questa realtà, assieme a quello dell’America più “sudista”, più provinciale, ivi compresa quella militarizzata, complottista, che teneva le bombe a mano nella credenza e portava i bambini a sparare con i mitra nel doposcuola. Vi dice niente tale modus operandi? Egli poi si dichiarava molto religioso, un patriota che voleva “difendere gli interessi dello Stato” e “proteggere i confini”… Joe Dante, in poche parole, ci mostrò l’arrivo sulla scena di Donald J. Trump, il suo populismo, la sua aggressività, il suo razzismo mascherato da patriottismo, il suo trattare i migranti come spauracchio della povertà.

La seconda guerra civile americana ebbe tra i grandi protagonisti anche le comunità ispanoamericane, ci ricordò che diversi Stati del Sud-Ovest, prima del 1848, appartenevano al Messico, erano stati civilizzati dai contadini e latifondisti messicani. Un fatto di cui spesso in Italia non si tiene conto nelle analisi politiche e che ha reso le comunità latinos di California e Nevada non per niente molto più aperte alla migrazione rispetto a quella del Texas, New Mexico, come si è visto in queste elezioni. Allora come oggi vi erano rivolte, da un piccolo episodio (lì dei profughi pakistani, nella realtà la morte di George Floyd) riemergevano i contrasti, la violenta contrapposizione di due anime inconciliabili, separate e mai riappacificatesi dal 1865, dalla fine della prima, vera, Guerra Civile.

Anche in questo il film di Dante fu semplicemente profetico, con il caos, l’anarchia per le strade, una Sinistra americana che non riusciva a riportare ordine o a dialogare, così come con un mondo dei mass media tossico e senza morale. Sì perché la realtà di questi anni ci dice che, al di là degli errori di valutazione, della mancanza di professionalità, ciò che si è perso negli Stati Uniti (e già nel 1997 appariva chiaro) è la dimensione del giornalismo come ricerca della verità, come guardiano della democrazia. Oggi è semplicemente un servizio in vendita, nel migliore dei casi, in cui conta la novità, la notizia, non la verità o il renderla universale. In questi anni, anche in questi ultimi mesi, i media sono stati sovente portatori di fake news, di notizie parziali o strumentalizzate, hanno inseguito lo share e il sensazionalismo. Non era un caso che una delle prime vittime, nel film di Joe Dante, fosse uno dei pochi giornalisti che cercava di fare il suo lavoro e basta, sul campo.

In queste ore forse qualcosa è cambiato, con le accuse infondate di Trump che vengono censurate e disconosciute un po’ da tutti i media. Ma non muta un semplice dato di fatto: Joe Dante aveva capito, aveva visto che, senza un’informazione vera e sana, il pericolo per la salute della politica americana era grande. Aveva ragione. Ha sempre avuto ragione nei suoi film, nel mostrarci la violenza della società, quanto pochi conti talvolta un presidente, e poi il razzismo, l’arrivismo e la mancanza di pietà. Nel 1997 lo fece con tante risate e qualche lacrima. Chi poteva immaginare che il più folle e irriverente dei suoi film sarebbe stato persino meno fantasioso della realtà che vede un presidente parlare di brogli senza prove, il suo elettorato parlare di complotti di non si sa chi, con una comunità di latinos e afroamericani che sovente si è schierata a favore dell’inquilino della Casa Bianca più razzista da sessant’anni a questa parte? Ma a tali livelli di fantasia neppure uno come Joe Dante poteva arrivare…

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