La fine del dibattito pubblico (o forse è andato altrove)

di Nicola Mirenzi (huffingtonpost.it, 25 settembre 2020)

Per il quarantesimo anniversario della sua nascita, la rivista Le Débat ha deciso di festeggiare in maniera speciale: chiudendo. Del resto, oggi, quanti altri modi ha una rivista per farsi notare? Nell’editoriale di addio, il direttore Pierre Nora ha scritto che la «scomparsa di una testata importante ha sempre un significato che la oltrepassa» e, da settimane, la Francia si domanda quale sia. «È un allarme per tutto il dibattito pubblico europeo», mi dice Ernesto Galli della Loggia appena accenno al motivo per cui lo chiamo.Le_DebatMi racconta che è abbonato alla rivista da dieci anni e tradisce nella voce un’amarezza che forse solo un uomo del Novecento può provare. «La chiusura di Débat» dice «solleva dei problemi che, nel caso italiano, sono addirittura clamorosi». Per spiegarsi la fine, in Francia hanno parlato dell’incultura delle nuove élite, della perdita della curiosità enciclopedica, ma soprattutto di una nuova radicalizzazione dello scontro pubblico, che cancella lo spazio del confronto laico tra posizioni diverse, non fanatiche: il territorio privilegiato di Débat, fondata nel 1980 proprio con questo intento. Secondo Marcel Gauchet, filosofo e redattore capo di Débat, c’è di mezzo anche la stabilità mentale della democrazia. Ci parlo dopo aver letto una sua intervista a Le Nouvel Observateur in cui dice che «oggi la vita pubblica è ridotta a delle polemiche mediatiche, nelle quali ci si accontenta di affermare delle tesi la cui prova è costituita dalla veemenza con cui sono espresse». Il ragionamento di Gauchet è che oggi «la ricerca di una visione d’insieme», un’elaborazione complessiva e coerente della realtà, che è il lavoro tipico delle riviste, è stata «uccisa dal digitale». Ognuno di noi legge online un certo numero di articoli sugli argomenti che lo interessano, il più delle volte con dei punti di vista dei quali è già convinto. Pochi considerano il filo che lega il particolare – sia esso il cibo, l’ecologia, l’immigrazione, la paternità omosessuale – alla dimensione generale dentro la quale è immerso. Ogni cosa rimane circoscritta nel suo campo. C’è lo specialista del cibo. Lo specialista delle migrazioni. Lo specialista delle questioni omosessuali. Lo specialista dell’ecologia.

«Il trionfo dell’iper-specializzazione» dice Gauchet all’HuffPost «genera un malessere democratico. I cittadini percepiscono che queste analisi settoriali fanno parte di un insieme più grande, ma nessuno è in grado di spiegargli cosa sia questo insieme. Di qui una frustrazione che nutre la radicalità e la violenza, perlomeno verbale». Tutto è spezzato, frantumato, puntiforme: io mi occupo di flussi finanziari, tu di economie emergenti, lei di industrie chiuse qui e riaperte altrove. «Il mondo però» dice Galli della Loggia «non è diviso per discipline, continua a muoversi come un tutt’uno, e per riuscire a comprenderlo è necessario cogliere con un solo sguardo tutto l’insieme. Il lavoro delle riviste era questo: legare i fatti dentro una visione generale, non ammucchiandoli gli uni sopra gli altri». Meno si riescono a comprendere i legami del mondo, più essi diventano la sorgente dell’ansia, del disorientamento, dell’apprensione, del malumore collettivo, diventando una questione politica e una minaccia all’ordine liberale. «Nella pratica» dice Gauchet «tutti i governi adottano una visione d’insieme. Solo che, la maggior parte delle volte, non ne sono consapevoli. Si accontentano di adottare misure grandi e piccole dettate dall’urgenza, agendo caso per caso, ispirati da una preoccupazione o dall’altra. Ma il risultato è comunque un insieme, generalmente molto lontano dalle intenzioni che hanno guidato le singole misure». Ci si può accontentare di registrare questo risultato? «Secondo me, no» risponde Gauchet. «E sta qui il cuore della frustrazione dei cittadini per il funzionamento attuale dei regimi democratici. È questo che dà la sensazione che manchi “un pilota dell’aereo”, che chi governa non sa cosa stia facendo, oltre che accontentare alcune clientele, mentre trascina tutti gli altri nel caos».

Alla fine degli anni Settanta, la rivista MondOperaio ha rivoluzionato i valori della cultura socialista italiana. Galli della Loggia è stato uno degli intellettuali che hanno partecipato a quella trasformazione che ha innestato il liberalismo – con il suo culto dell’individuo – nel corpo dell’antica cultura marxista, in risposta all’autoritarismo che stava soffocando i Paesi comunisti dell’Est. La figura di riferimento è stata Norberto Bobbio. Il risultato: la trasformazione programmatica del Partito Socialista Italiano. «Negli ultimi trent’anni» spiega della Loggia «c’è stato un progressivo divorzio tra il mondo delle idee e il mondo della politica e, oggi, questo divorzio è diventato assoluto. In Italia, il fenomeno è persino eclatante. Per questo, lei non dovrebbe parlare con me. Lei dovrebbe chiamare uno per uno i capigruppo dei partiti rappresentati in Parlamento e chiedergli: “Lei conosce la rivista Débat? L’ha mai letta? Si è mai posto il problema di come stanno insieme le cose che accadono nel mondo?”». L’idea è buona: però, mi vergogno. Nemmeno io sapevo che esistesse Le Débat prima di leggere la notizia che la stavano chiudendo. Cerco di rimediare chiamando alla biblioteca della Fondazione Basso, a Roma: posseggono l’intera collezione fino al numero 173, uscito a gennaio del 2013. Poi, la collezione si interrompe. Mi fanno trovare i fascicoli della rivista uno sull’altro, su un grande tavolo. La grafica – scopro – è rimasta uguale dal primo numero (uscito nel maggio del 1980) fino all’ultimo (uscito il 10 settembre del 2020 e che acquisto online). Copertina bianca, testata in caratteri minuscoli neri, i richiami dei saggi più importanti in diversi colori. Ci sono dentro firme eccezionali: Milan Kundera, Claude Lévi-Strauss, Jean Baudrillard, Edgard Morin. Nonché i temi più importanti degli ultimi decenni: l’emergere dell’Islam radicale, il narcisismo di massa, la potenza liberatoria della caduta dell’Unione Sovietica, la decrittazione del capitalismo finanziario, la frantumazione della scuola.

Leggo l’editoriale del primo numero, firmato da Pierre Nora. È uscito un mese dopo la morte di Jean-Paul Sartre e assomiglia a un’orazione funebre per tutti gli intellettuali impegnati del mondo. Racconta che l’intellettuale prese il posto della Chiesa sul trono del potere spirituale, dopo che la laicità scacciò la religione dalla dimensione pubblica. Sono stati gli intellettuali, non più i preti, a occuparsi delle questioni ultime dell’esistenza, interrogando il senso nascosto della Storia e indicando la direzione dell’avvenire. In Francia Sartre, in Italia Pasolini: in un certo senso, sono stati loro a esercitare l’ultima forma di tirannia sulle coscienze. Ecco perché il fine della rivista, conclude Nora, sarebbe stato quello di prendere atto che era ora di finirla con «la figura storica dell’intellettuale dispotico» e inaugurare una «rivoluzione democratica del potere spirituale». Il problema – come sempre con le rivoluzioni – è come è andata a finire. «L’avvento del Web» mi dice Marco Belpoliti «ha spodestato definitivamente i grandi intellettuali, togliendo loro importanza in quanto pedagoghi e coscienza critica della società».

Scrittore, critico e docente universitario capace di unire nel suo lavoro la letteratura, la politica, le pittura, la fotografia, lo studio degli insetti, Belpoliti è anche il direttore di una rivista online che si chiama DoppioZero. Pubblica saggi che sono molto letti e altri che passano inosservati. Non è più lui, mi racconta, a scegliere ciò che deve essere letto: è l’utente che compone la propria rivista seguendo il proprio desiderio, scegliendo ciò che vuole leggere ed escludendo ciò che non gli interessa, senz’altra cornice che non sia il gusto personale. «Anche la cultura è diventata un fatto estetico: mi piace, non mi piace». Ti può esaltare Fedez e, allo stesso tempo, ti può fare schifo Beethoven, non c’è alcuna gerarchia di valore: è un diritto umano ormai riconosciuto dalle Convinzioni Internazionali. Allo stesso tempo, però, la Rete prova nostalgia dei riferimenti, è alla ricerca spasmodica di figure che la orientino, e spesso li trova negli influencer. «Oggi» spiega Gauchet «la celebrità costituisce la fonte stessa dell’autorità. Ma l’elemento decisivo della cultura delle celebrità – anche quelle intellettuali – non è quello che fanno, bensì quello che sono: personaggi noti. Questo fenomeno» prosegue «va di pari passo con la crescita di mobilitazioni che fanno sempre più appello alla compassione o, in generale, ai buoni sentimenti. Per sostenere queste cause, non c’è bisogno di grandi riflessioni. Il dibattito fondato sulla conoscenza viene così sostituito da posizioni morali. L’argomentazione dall’invettiva. L’obiettivo non è più dimostrare la verità del proprio discorso all’avversario ma squalificarlo moralmente, screditando il suo punto di vista. Il settarismo, minoritario dalla caduta del Muro in poi, sta tornando a essere egemonico».

Nel suo ultimo libro, Twilight of Democracy, un saggio preoccupato sul futuro delle democrazie occidentali, Anne Applebaum scrive che i vecchi mezzi d’informazione creavano la possibilità di un «dibattito nazionale comune», dentro il quale si condividevano dei criteri di discussione. Oggi, invece, la Rete ha parcellizzato ogni discorso. In una bolla alcuni argomenti vengono dichiarati veri, in un’altra vengono ritenuti falsi. Fino al limite estremo, scrive Applebaum, che «le persone hanno sempre avuto diverse opinioni: oggi, però, hanno diversi fatti». Quando, alla fine del 2016, Goffredo Fofi chiuse Lo Straniero disse che ormai «i giovani che scrivono si fanno una cultura leggendo i propri articoli», e anche per questo riteneva che la rivista incidesse «ben poco sull’andamento della società e della cultura italiane». Le riviste si sono sempre fatte per questo, mi racconta Piergiorgio Bellocchio, fondatore insieme ad Alfonso Berardinelli di Diario, rivista nata nel 1985 e chiusa nel 1993, grazie alla quale in Italia sono stati recuperati e riscoperti un’autrice come Simone Weil e uno scrittore come George Orwell. «Da quando Joseph Addison fonda The Spectator, all’inizio del Settecento, passando poi per l’Ottocento e il Novecento, che delle riviste è stato il gran secolo, le riviste sono sempre nate per influenzare e modificare la discussione pubblica, quando un gruppo di persone riteneva di avere delle cose nuove da dire».

Oggi basta andare in una libreria, chiedere a un edicolante, oppure navigare online per accorgersi che il numero delle riviste è alto. Quelle partigiane, come Jacobin, oppure Front Populaire, da poco fondata in Francia da Michel Onfray, hanno successo (continuano ad avere successo anche molte riviste americane: The New York Review of Books, The Atlantic, Foreign Affairs; ma per il mondo anglosassone il discorso sarebbe diverso). Soffrono, invece, le riviste non schierate, che accolgono punti di vista differenti. La loro capacità di condizionare il dibattito pubblico è molto scarsa. Non per la qualità: piuttosto, perché non esiste più un vero dibattito pubblico. È quello che sostiene Mark Thompson – amministratore delegato del New York Times ed ex direttore della Bbc – nel suo saggio che si chiama proprio La fine del dibattito pubblico (Feltrinelli), nel quale accosta la babele della discussione occidentale a quello che successe ad Atene durante la Guerra del Peloponneso: «Un fattore importante del declino di Atene da democrazia disfunzionale fino a tirannide e anarchia passando attraverso la demagogia» scrive «fu una particolare mutazione nel linguaggio, quando cioè la gente cominciò a definire le cose in modo casuale, senza ordine, facendo perdere alle parole il loro vero e accettato significato».

Vuol dire, quindi, che non c’è niente da fare? Che sarebbe meglio rinunciare a qualsiasi intelligenza della realtà? Non secondo Marco Belpoliti. «L’epoca che stiamo vivendo» dice «assomiglia al Medio Evo: le grandi istituzioni, dall’Università, ai partiti, all’intellettuale direttore di coscienza, sono destinate a morire, se non sono già morte. Bisogna accettare l’idea che lo statuto del lavoro intellettuale è cambiato. Non ci saranno più i grandi intellettuali seguiti da migliaia di persone: ci saranno, però, dei piccoli maestri, che trasmetteranno il proprio sapere ai loro pochi discepoli, dai quali prenderanno avvio nuovi percorsi, che oggi non possiamo conoscere, né prevedere. Così è stato per il Medio Evo, sbocciato poi nel Rinascimento. Débat è chiuso, ma i semi che quegli intellettuali hanno gettato faranno nascere frutti nuovi. Da anni, sento lamenti sulla morte della cultura. Ebbene, sono falsi. Potrei fare i nomi di dieci intellettuali viventi che rimarranno, e in pochi li riconoscerebbero. Quando uscì Essere e tempo di Heidegger, ci vollero vent’anni perché l’umanità si accorgesse che era stato scritto uno dei più grandi capolavori della Filosofia. Il lavoro culturale è un lavoro lento. Richiede pazienza, fatica, silenzio. Io non credo nell’Apocalisse. Credo che la fine del mondo sarà continuamente rimandata a domani. E, in questo penultimo giorno che vivremo da qui in poi, faremmo meglio a non lanciare strali. Il mondo è così, non cambierà. Senz’altro non cambierà seguendo i nostri desideri. Io cerco piuttosto di sopravvivere, lottando per adattarmi alle condizioni e agli strumenti nuovi. Perderemo alcuni riferimenti, ne avremo degli altri. Io non voglio farmi travolgere. Senz’altro, prima o poi, finirò. Ma dubito che, insieme a me, finirà il mondo e la sua intelligenza. Perciò, poche lagne».

di Nicola Mirenzi (huffingtonpost.it, 25 settembre 2020)

Per il quarantesimo anniversario della sua nascita, la rivista Le Débat ha deciso di festeggiare in maniera speciale: chiudendo. Del resto, oggi, quanti altri modi ha una rivista per farsi notare? Nell’editoriale di addio, il direttore Pierre Nora ha scritto che la «scomparsa di una testata importante ha sempre un significato che la oltrepassa» e, da settimane, la Francia si domanda quale sia. «È un allarme per tutto il dibattito pubblico europeo», mi dice Ernesto Galli della Loggia appena accenno al motivo per cui lo chiamo.

Mi racconta che è abbonato alla rivista da dieci anni e tradisce nella voce un’amarezza che forse solo un uomo del Novecento può provare. «La chiusura di Débat» dice «solleva dei problemi che, nel caso italiano, sono addirittura clamorosi». Per spiegarsi la fine, in Francia hanno parlato dell’incultura delle nuove élite, della perdita della curiosità enciclopedica, ma soprattutto di una nuova radicalizzazione dello scontro pubblico, che cancella lo spazio del confronto laico tra posizioni diverse, non fanatiche: il territorio privilegiato di Débat, fondata nel 1980 proprio con questo intento. Secondo Marcel Gauchet, filosofo e redattore capo di Débat, c’è di mezzo anche la stabilità mentale della democrazia. Ci parlo dopo aver letto una sua intervista a Le Nouvel Observateur in cui dice che «oggi la vita pubblica è ridotta a delle polemiche mediatiche, nelle quali ci si accontenta di affermare delle tesi la cui prova è costituita dalla veemenza con cui sono espresse». Il ragionamento di Gauchet è che oggi «la ricerca di una visione d’insieme», un’elaborazione complessiva e coerente della realtà, che è il lavoro tipico delle riviste, è stata «uccisa dal digitale». Ognuno di noi legge online un certo numero di articoli sugli argomenti che lo interessano, il più delle volte con dei punti di vista dei quali è già convinto. Pochi considerano il filo che lega il particolare – sia esso il cibo, l’ecologia, l’immigrazione, la paternità omosessuale – alla dimensione generale dentro la quale è immerso. Ogni cosa rimane circoscritta nel suo campo. C’è lo specialista del cibo. Lo specialista delle migrazioni. Lo specialista delle questioni omosessuali. Lo specialista dell’ecologia.

«Il trionfo dell’iper-specializzazione» dice Gauchet all’HuffPost «genera un malessere democratico. I cittadini percepiscono che queste analisi settoriali fanno parte di un insieme più grande, ma nessuno è in grado di spiegargli cosa sia questo insieme. Di qui una frustrazione che nutre la radicalità e la violenza, perlomeno verbale». Tutto è spezzato, frantumato, puntiforme: io mi occupo di flussi finanziari, tu di economie emergenti, lei di industrie chiuse qui e riaperte altrove. «Il mondo però» dice Galli della Loggia «non è diviso per discipline, continua a muoversi come un tutt’uno, e per riuscire a comprenderlo è necessario cogliere con un solo sguardo tutto l’insieme. Il lavoro delle riviste era questo: legare i fatti dentro una visione generale, non ammucchiandoli gli uni sopra gli altri». Meno si riescono a comprendere i legami del mondo, più essi diventano la sorgente dell’ansia, del disorientamento, dell’apprensione, del malumore collettivo, diventando una questione politica e una minaccia all’ordine liberale. «Nella pratica» dice Gauchet «tutti i governi adottano una visione d’insieme. Solo che, la maggior parte delle volte, non ne sono consapevoli. Si accontentano di adottare misure grandi e piccole dettate dall’urgenza, agendo caso per caso, ispirati da una preoccupazione o dall’altra. Ma il risultato è comunque un insieme, generalmente molto lontano dalle intenzioni che hanno guidato le singole misure». Ci si può accontentare di registrare questo risultato? «Secondo me, no» risponde Gauchet. «E sta qui il cuore della frustrazione dei cittadini per il funzionamento attuale dei regimi democratici. È questo che dà la sensazione che manchi “un pilota dell’aereo”, che chi governa non sa cosa stia facendo, oltre che accontentare alcune clientele, mentre trascina tutti gli altri nel caos».

Alla fine degli anni Settanta, la rivista MondOperaio ha rivoluzionato i valori della cultura socialista italiana. Galli della Loggia è stato uno degli intellettuali che hanno partecipato a quella trasformazione che ha innestato il liberalismo – con il suo culto dell’individuo – nel corpo dell’antica cultura marxista, in risposta all’autoritarismo che stava soffocando i Paesi comunisti dell’Est. La figura di riferimento è stata Norberto Bobbio. Il risultato: la trasformazione programmatica del Partito Socialista Italiano. «Negli ultimi trent’anni» spiega della Loggia «c’è stato un progressivo divorzio tra il mondo delle idee e il mondo della politica e, oggi, questo divorzio è diventato assoluto. In Italia, il fenomeno è persino eclatante. Per questo, lei non dovrebbe parlare con me. Lei dovrebbe chiamare uno per uno i capigruppo dei partiti rappresentati in Parlamento e chiedergli: “Lei conosce la rivista Débat? L’ha mai letta? Si è mai posto il problema di come stanno insieme le cose che accadono nel mondo?”». L’idea è buona: però, mi vergogno. Nemmeno io sapevo che esistesse Le Débat prima di leggere la notizia che la stavano chiudendo. Cerco di rimediare chiamando alla biblioteca della Fondazione Basso, a Roma: posseggono l’intera collezione fino al numero 173, uscito a gennaio del 2013. Poi, la collezione si interrompe. Mi fanno trovare i fascicoli della rivista uno sull’altro, su un grande tavolo. La grafica – scopro – è rimasta uguale dal primo numero (uscito nel maggio del 1980) fino all’ultimo (uscito il 10 settembre del 2020 e che acquisto online). Copertina bianca, testata in caratteri minuscoli neri, i richiami dei saggi più importanti in diversi colori. Ci sono dentro firme eccezionali: Milan Kundera, Claude Lévi-Strauss, Jean Baudrillard, Edgard Morin. Nonché i temi più importanti degli ultimi decenni: l’emergere dell’Islam radicale, il narcisismo di massa, la potenza liberatoria della caduta dell’Unione Sovietica, la decrittazione del capitalismo finanziario, la frantumazione della scuola.

Leggo l’editoriale del primo numero, firmato da Pierre Nora. È uscito un mese dopo la morte di Jean-Paul Sartre e assomiglia a un’orazione funebre per tutti gli intellettuali impegnati del mondo. Racconta che l’intellettuale prese il posto della Chiesa sul trono del potere spirituale, dopo che la laicità scacciò la religione dalla dimensione pubblica. Sono stati gli intellettuali, non più i preti, a occuparsi delle questioni ultime dell’esistenza, interrogando il senso nascosto della Storia e indicando la direzione dell’avvenire. In Francia Sartre, in Italia Pasolini: in un certo senso, sono stati loro a esercitare l’ultima forma di tirannia sulle coscienze. Ecco perché il fine della rivista, conclude Nora, sarebbe stato quello di prendere atto che era ora di finirla con «la figura storica dell’intellettuale dispotico» e inaugurare una «rivoluzione democratica del potere spirituale». Il problema – come sempre con le rivoluzioni – è come è andata a finire. «L’avvento del Web» mi dice Marco Belpoliti «ha spodestato definitivamente i grandi intellettuali, togliendo loro importanza in quanto pedagoghi e coscienza critica della società».

Scrittore, critico e docente universitario capace di unire nel suo lavoro la letteratura, la politica, le pittura, la fotografia, lo studio degli insetti, Belpoliti è anche il direttore di una rivista online che si chiama DoppioZero. Pubblica saggi che sono molto letti e altri che passano inosservati. Non è più lui, mi racconta, a scegliere ciò che deve essere letto: è l’utente che compone la propria rivista seguendo il proprio desiderio, scegliendo ciò che vuole leggere ed escludendo ciò che non gli interessa, senz’altra cornice che non sia il gusto personale. «Anche la cultura è diventata un fatto estetico: mi piace, non mi piace». Ti può esaltare Fedez e, allo stesso tempo, ti può fare schifo Beethoven, non c’è alcuna gerarchia di valore: è un diritto umano ormai riconosciuto dalle Convinzioni Internazionali. Allo stesso tempo, però, la Rete prova nostalgia dei riferimenti, è alla ricerca spasmodica di figure che la orientino, e spesso li trova negli influencer. «Oggi» spiega Gauchet «la celebrità costituisce la fonte stessa dell’autorità. Ma l’elemento decisivo della cultura delle celebrità – anche quelle intellettuali – non è quello che fanno, bensì quello che sono: personaggi noti. Questo fenomeno» prosegue «va di pari passo con la crescita di mobilitazioni che fanno sempre più appello alla compassione o, in generale, ai buoni sentimenti. Per sostenere queste cause, non c’è bisogno di grandi riflessioni. Il dibattito fondato sulla conoscenza viene così sostituito da posizioni morali. L’argomentazione dall’invettiva. L’obiettivo non è più dimostrare la verità del proprio discorso all’avversario ma squalificarlo moralmente, screditando il suo punto di vista. Il settarismo, minoritario dalla caduta del Muro in poi, sta tornando a essere egemonico».

Nel suo ultimo libro, Twilight of Democracy, un saggio preoccupato sul futuro delle democrazie occidentali, Anne Applebaum scrive che i vecchi mezzi d’informazione creavano la possibilità di un «dibattito nazionale comune», dentro il quale si condividevano dei criteri di discussione. Oggi, invece, la Rete ha parcellizzato ogni discorso. In una bolla alcuni argomenti vengono dichiarati veri, in un’altra vengono ritenuti falsi. Fino al limite estremo, scrive Applebaum, che «le persone hanno sempre avuto diverse opinioni: oggi, però, hanno diversi fatti». Quando, alla fine del 2016, Goffredo Fofi chiuse Lo Straniero disse che ormai «i giovani che scrivono si fanno una cultura leggendo i propri articoli», e anche per questo riteneva che la rivista incidesse «ben poco sull’andamento della società e della cultura italiane». Le riviste si sono sempre fatte per questo, mi racconta Piergiorgio Bellocchio, fondatore insieme ad Alfonso Berardinelli di Diario, rivista nata nel 1985 e chiusa nel 1993, grazie alla quale in Italia sono stati recuperati e riscoperti un’autrice come Simone Weil e uno scrittore come George Orwell. «Da quando Joseph Addison fonda The Spectator, all’inizio del Settecento, passando poi per l’Ottocento e il Novecento, che delle riviste è stato il gran secolo, le riviste sono sempre nate per influenzare e modificare la discussione pubblica, quando un gruppo di persone riteneva di avere delle cose nuove da dire».

Oggi basta andare in una libreria, chiedere a un edicolante, oppure navigare online per accorgersi che il numero delle riviste è alto. Quelle partigiane, come Jacobin, oppure Front Populaire, da poco fondata in Francia da Michel Onfray, hanno successo (continuano ad avere successo anche molte riviste americane: The New York Review of Books, The Atlantic, Foreign Affairs; ma per il mondo anglosassone il discorso sarebbe diverso). Soffrono, invece, le riviste non schierate, che accolgono punti di vista differenti. La loro capacità di condizionare il dibattito pubblico è molto scarsa. Non per la qualità: piuttosto, perché non esiste più un vero dibattito pubblico. È quello che sostiene Mark Thompson – amministratore delegato del New York Times ed ex direttore della Bbc – nel suo saggio che si chiama proprio La fine del dibattito pubblico (Feltrinelli), nel quale accosta la babele della discussione occidentale a quello che successe ad Atene durante la Guerra del Peloponneso: «Un fattore importante del declino di Atene da democrazia disfunzionale fino a tirannide e anarchia passando attraverso la demagogia» scrive «fu una particolare mutazione nel linguaggio, quando cioè la gente cominciò a definire le cose in modo casuale, senza ordine, facendo perdere alle parole il loro vero e accettato significato».

Vuol dire, quindi, che non c’è niente da fare? Che sarebbe meglio rinunciare a qualsiasi intelligenza della realtà? Non secondo Marco Belpoliti. «L’epoca che stiamo vivendo» dice «assomiglia al Medio Evo: le grandi istituzioni, dall’Università, ai partiti, all’intellettuale direttore di coscienza, sono destinate a morire, se non sono già morte. Bisogna accettare l’idea che lo statuto del lavoro intellettuale è cambiato. Non ci saranno più i grandi intellettuali seguiti da migliaia di persone: ci saranno, però, dei piccoli maestri, che trasmetteranno il proprio sapere ai loro pochi discepoli, dai quali prenderanno avvio nuovi percorsi, che oggi non possiamo conoscere, né prevedere. Così è stato per il Medio Evo, sbocciato poi nel Rinascimento. Débat è chiuso, ma i semi che quegli intellettuali hanno gettato faranno nascere frutti nuovi. Da anni, sento lamenti sulla morte della cultura. Ebbene, sono falsi. Potrei fare i nomi di dieci intellettuali viventi che rimarranno, e in pochi li riconoscerebbero. Quando uscì Essere e tempo di Heidegger, ci vollero vent’anni perché l’umanità si accorgesse che era stato scritto uno dei più grandi capolavori della Filosofia. Il lavoro culturale è un lavoro lento. Richiede pazienza, fatica, silenzio. Io non credo nell’Apocalisse. Credo che la fine del mondo sarà continuamente rimandata a domani. E, in questo penultimo giorno che vivremo da qui in poi, faremmo meglio a non lanciare strali. Il mondo è così, non cambierà. Senz’altro non cambierà seguendo i nostri desideri. Io cerco piuttosto di sopravvivere, lottando per adattarmi alle condizioni e agli strumenti nuovi. Perderemo alcuni riferimenti, ne avremo degli altri. Io non voglio farmi travolgere. Senz’altro, prima o poi, finirò. Ma dubito che, insieme a me, finirà il mondo e la sua intelligenza. Perciò, poche lagne».

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