Ogni cosa è politica: conversazione con Maria Grazia Chiuri

di Raffaella Perna (vanityfair.it, 23 settembre 2020)

La moda non è soltanto un’estensione del corpo, ma anche un’interpretazione più o meno conscia della propria personalità: «No One Escapes Fashion», ha affermato Ingrid Giertz-Mårtenson in occasione della mostra Utopian Bodies. Fashion Looks Forward (2015). Nessuno di noi infatti può sfuggire all’ambiente che ogni giorno ci costruiamo attorno, così come nessuno di noi sfugge all’influenza della moda: l’abito è uno strumento che ci accompagna quotidianamente, strettamente legato alla soggettività e all’autorappresentazione, e nel contempo è un fenomeno collettivo, grazie al quale idee, convinzioni, saperi, emozioni, desideri prendono forma tangibile.

Ph. Jean-Paul Goude / Harper’s Bazar
Ph. Jean-Paul Goude / Harper’s Bazar

Già negli anni Sessanta Roland Barthes aveva compreso che attraverso la moda «la società si mette in mostra e comunica ciò che pensa del mondo». In questa prospettiva la moda può essere concepita come un terreno di lotta per affermare nuove visioni estetiche e politiche: può incidere nel tessuto sociale e mostrare la realtà da un’angolazione diversa.

Raffaella Perna: «Da quando nel 2016 sei diventata direttrice artistica di Dior molti dei tuoi progetti creativi si sono concentrati sui legami tra arte, moda e femminismo. Hai fatto una scelta di campo precisa, schierandoti dalla parte delle donne che lottano per sfidare un immaginario estetico sessista, talvolta interiorizzato dalle donne stesse. Hai usato senza remore la parola “femminismo”, che soltanto pochi anni fa, nel 2014, è stata inserita da Time in una lista di termini che i lettori potevano decidere se conservare o cancellare. Com’è stata accolta la tua scelta?».

Maria Grazia Chiuri: «La scelta di usare la parola “femminismo” e di essermi schierata apertamente non è stata accolta da tutti con favore, anche perché, per alcuni, il termine “femminismo” rappresentava qualcosa di “superato”. Per affrontare tematiche femministe ho scelto sin dall’inizio di collaborare con la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie che, in quel momento, stava parlando di femminismo in un’ottica ironica e dissacratoria, per alcuni aspetti diversa rispetto a quella degli anni Settanta. Tale scelta è stata criticata sia da chi ha sempre rifiutato questa parola, sia da chi si riteneva fedele alla seconda ondata del movimento delle donne, forse a causa della poca conoscenza del percorso femminista sviluppato negli ultimi decenni nei vari Paesi del mondo. Il femminismo ha infatti molte anime e molte sfaccettature. Ad ogni modo, le critiche non mi hanno fermato. Le volte in cui mi è stato chiesto se fossi una designer politica ho sempre risposto di sì, perché tutto ciò che si fa nella vita è politico. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è stato recepito con difficoltà all’interno del sistema della moda, perché la figura del designer viene ancora associata a un concetto di creatività di stampo romantico, slegato da fattori sociali e politici. Col senno del poi, comprendo di essermi messa in una situazione in cui era prevedibile non essere capita appieno. Ma nel corso degli anni ho cercato di chiarire che, nel mio caso, si è trattato di una scelta talmente legata al mio vissuto e al mio modo di concepire la professione che non avrei potuto agire altrimenti. Con il tempo, attraverso il lavoro, ho cercato di spiegare la mia visione e a distanza di quattro anni credo che vi sia una maggiore comprensione. Ma in ogni caso sarei andata avanti, perché l’urgenza politica è intimamente connessa al mio lavoro creativo: non c’è una cesura tra i due ambiti. Tutto il mio lavoro è profondamente autobiografico, parlare di femminismo è un’esigenza personale legata all’avere toccato con mano molte situazioni non inclusive, in cui anche le donne avevano interiorizzato valori patriarcali. Troppo spesso il femminismo viene ricondotto unicamente all’esperienza delle donne, ma in realtà si tratta di un movimento che riguarda tutti, in lotta contro il maschilismo e di conseguenza contro il potere. Naturalmente la cultura patriarcale è molto difficile da scardinare, per questo sono così interessata al lavoro di artiste che hanno affrontato questi temi, come Tomaso Binga, Judy Chicago, Marinella Senatore o il duo Claire Fontaine. Dal mio punto di vista le loro opere sono illuminanti e possono essere d’ispirazione per le nuove generazioni. Un’altra mia ossessione è infatti quella di comunicare con le generazioni più giovani e, in tal senso, credo che la moda possa fare molto, perché essendo un’arte popolare può arrivare a un pubblico più ampio e diversificato rispetto a quello che di solito frequenta musei e mostre d’arte».

R.P.: «In questa tua “ossessione” per le nuove generazioni, quanto ha inciso avere una figlia?».

M.G.C.: «Nella mia presa di coscienza politica è stato fondamentale avere sia una figlia femmina sia un maschio. Senza di loro forse non avrei raggiunto la stessa consapevolezza. I miei figli sono fortunati perché hanno avuto l’opportunità di frequentare scuole dove hanno condotto studi di genere, specialmente Rachele, e hanno potuto sviluppare un percorso di crescita culturale. Questo ovviamente non accade a tutti i giovani, meno che mai a tutti i giovani del mondo. Per tale ragione credo che sia fondamentale allargare l’accesso all’educazione. Quando ho letto per la prima volta il testo Perché non ci sono state grandi artiste? di Linda Nochlin (saggio del 1971, Linda Nochlin è stata una storica dell’arte americana, femminista – N.d.R.) ricordo perfettamente di avere pensato che sarebbe stato molto più utile per me averlo letto a quattordici anni. Malgrado la famiglia mi abbia trasmesso certi valori, nel mio lavoro artistico e professionale sono stata un’autodidatta. Benché oggi, con il progresso informatico, sia più facile ottenere informazioni, questo non vale per tutti».

R.P.: «Quando ho curato con Ilaria Bussoni il libro Il gesto femminista (2014), una giornalista del Secolo d’Italia, per stroncarlo, ha scritto che “i gesti del femminismo furono meno rivoluzionari del tubino di Coco Chanel”. Questa idea, ovviamente, non mi ha trovato d’accordo, ma l’accostamento mi è sembrato efficace, perché, pur nella loro diversità, entrambe le cose hanno segnato una trasformazione profonda. La moda, come l’arte, può essere un potente dispositivo di rottura degli schemi culturali e visivi dominanti. Il lavoro artistico non è estraneo alle logiche dell’economia neoliberista, come non lo è la moda, ma il potenziale sovversivo è una componente fondamentale di entrambi i campi. La moda, come sostiene la teorica Joanne Entwistle, costituisce un mercato estetico dove il valore estetico non è qualcosa di aggiunto, ma è il prodotto stesso».

M.G.C.: «Mi confronto spesso su questo tema, specialmente con mia figlia Rachele, che lavora insieme ad altre giovani colleghe nell’ufficio di Gender Studies di Dior. Naturalmente mi sono chiesta se affrontare questioni legate al pensiero e alla pratica del femminismo all’interno del sistema della moda non sia un modo per mercificare questi stessi valori. Ma ho deciso di proseguire, perché lavorare con artiste femministe è una strada per prendere coscienza e perché credo che comunicare le loro idee possa contribuire a favorire una riflessione. Qualche tempo fa al Brooklyn Museum di New York ho incontrato un’adolescente, avrà avuto su per giù quattordici anni, con indosso la maglietta con la scritta di Chimamanda “We Should All Be Feminists”. Si trattava di un’imitazione, ma sono stata ugualmente felice perché il mio obiettivo, com’è naturale, non è mai stato quello di vendere una maglietta in più, bensì quello di diffondere un messaggio. Sono pienamente cosciente di lavorare all’interno di un mercato contestato dal femminismo. Ma sono anche consapevole del fatto che tutti noi viviamo in un sistema capitalista. Preferisco provare a migliorare il mondo della moda dall’interno, anche perché non vedo molte altre alternative realmente efficaci. Amo la moda, non rinnego il sistema in cui vivo, ma credo che chi lavora in questo settore debba fare una profonda autoanalisi sui messaggi e sui modelli che ha comunicato, talvolta per mancanza di strumenti culturali adeguati. La mia volontà è sempre stata quella di cambiare in meglio il sistema in cui lavoro, di agire in modo consapevole e di trasmettere consapevolezza agli altri. Mi sono detta: o provo a fare qualcosa o non faccio nulla. La moda è un sistema complesso, che ha aspetti negativi, ma anche molti lati positivi, tra cui quello di lavorare con il corpo, elemento fondamentale per tutto il percorso femminista. Quando la giornalista di cui hai parlato poco fa ha scritto che “i gesti del femminismo sono meno rivoluzionari del tubino di Coco Chanel” ha compreso una cosa importante: Coco Chanel è stata la prima stilista a rappresentare la donna moderna. Spesso però in Italia la moda non è considerata alla pari con le altre arti (la musica, il cinema, il teatro…), ma viene vista soprattutto per la sua componente commerciale, quindi come un’arte di serie B. Questa concezione è ancora molto diffusa in Italia, mentre in Francia la realtà è diversa: alla moda viene riconosciuto un alto valore culturale. Dall’altro lato, però, in Francia l’immagine del designer è ancora molto legata all’idea utopistica di una creatività non “contaminata” dalla realtà sociale. Per tornare al discorso di prima, è per questo che la mia scelta politica ha incontrato forti resistenze. Nel mondo della moda, come in quello dell’arte, il “genio” è maschio. Quando sono entrata in Dior, invece di parlare delle mie capacità, tutti hanno posto l’accento sul fatto che fossi la prima donna ad avere ottenuto la direzione artistica della maison e che fossi entrata nel brand che più rappresentava “la femminilità”. Ma cos’è la femminilità oggi? In quanto donna nata nel 1964 e cresciuta negli anni Settanta, la mia idea di femminilità non poteva essere la stessa espressa dagli abiti disegnati da Christian Dior nel secondo dopoguerra. Su questo punto sono stata chiara sin dall’inizio, anche perché ho un’età in cui le scelte professionali che fai ti devono appartenere. Ho avuto la massima disponibilità da parte della maison, a cui sono grata per avere mostrato una completa apertura nei confronti delle mie scelte. Come dicevo, in Francia il rispetto per l’autore è molto forte. Da Dior ho trovato una grande capacità di riconoscere l’indipendenza creativa degli autori».

R.P.: «In questi anni hai deciso di lavorare unicamente con fotografe, penso a Brigitte Niedermair o Brigitte Lacombe. La campagna Dior Donna Inverno 2020-2021 è stata affidata a Paola Mattioli, una delle autrici più significative nel panorama fotografico degli anni Settanta. Invitata da Francesco Vezzoli a collaborare a questo numero di Vanity Fair, Mattioli ha attinto al bagaglio di esperienze maturate nel suo lavoro a partire dai primi anni Settanta per creare una narrazione fotografica sofisticata, in grado di stravolgere alcuni cliché dei servizi di moda. La fotografia che apre la sequenza, ad esempio, può essere interpretata come un autoritratto “in assenza”: davanti al cavalletto fotografico, sul quale è collocata la rivisitazione contemporanea della bar jacket di Dior, troviamo le Immagini del no, scattate da Mattioli nel 1974 in occasione della battaglia per il divorzio. Negli anni Settanta Mattioli entra a fare parte dei gruppi di autocoscienza del movimento femminista, che sin dall’inizio presenta una fisionomia molto articolata. Sul piano artistico le posizioni tra le intellettuali spesso non convergono: se da un lato Carla Lonzi rifiuta in modo radicale ogni compromesso con la cultura patriarcale, abbandonando la sua brillante carriera di critica d’arte, dall’altro intellettuali e curatrici come Romana Loda, Anne-Marie Sauzeau o Lea Vergine mirano a cambiare le logiche sessiste del sistema artistico operandovi dall’interno. Anche per le artiste coinvolte nei gruppi femministi la scelta di continuare a lavorare in un sistema dominato da regole maschili non è pacifica e comporta un riesame della propria attività precedente. A questo proposito, l’esperienza di Paola Mattioli è particolarmente interessante, perché, pur continuando a operare all’interno del circuito espositivo tradizionale, ha cercato di modificare i codici della fotografia e la relazione tra oggetto e soggetto dello sguardo. In opere come Sara è incinta, Donne allo specchio o Jouissance, Mattioli ha riflettuto a fondo sulle modalità di rappresentazione dell’identità e del corpo della donna, esprimendo con le sue immagini il carattere collettivo del femminismo. Oggi propone una serie di autoritratti per riaffermare che il corpo delle donne, per trovare spazio sui media, non debba necessariamente essere snello, sodo, slanciato e privo di rughe come quello di una diciottenne. L’insostenibilità di canoni di bellezza omologanti e l’eccessiva importanza che storicamente è stata attribuita al corpo delle donne sono temi su cui la moda si sta interrogando, talvolta con scelte controverse, spesso limitandosi ad allargare la tipologia di bellezze accettate senza tuttavia affrontare il problema alla radice».

M.G.C.: «Vedersi con i propri occhi e non con gli occhi degli altri è un aspetto imprescindibile. Per questo trovo gli autoritratti di Paola Mattioli molto interessanti. Dobbiamo però essere consapevoli della nostra storia: i modelli di bellezza con cui siamo cresciuti sono quelli greco-romani, la nostra è una cultura eurocentrista. E questa cultura ha rappresentato non soltanto un canone estetico, ma anche un sistema di potere. È una storia millenaria che non si può cancellare. Solo attraverso l’educazione è possibile attivare un processo di presa di coscienza che non sia superficiale. Quando sono andata in Lagos, insieme a Chimamanda, per supportare la moda nigeriana, mi sono resa conto che al mercato gli abiti venivano esposti quasi esclusivamente su manichini bianchi; quando ho chiesto il perché, mi è stato risposto che quelli sui manichini neri non venivano acquistati. Per uscire da questi canoni, serve un serio processo culturale: il cambiamento va interiorizzato. In tal senso, ho trovato illuminante il libro Marchio & femmina: la donna inventata dalla pubblicità (1978) del poeta visivo Lamberto Pignotti. L’adesione a modelli di bellezza stereotipati coinvolge sempre di più anche gli uomini, tra gli adolescenti maschi i problemi alimentari sono in crescita e si assiste a una mercificazione sempre più spinta anche del corpo dell’uomo. Ma è pur vero che per una donna – specialmente in determinate sfere professionali – l’aspetto fisico ha ancora un peso maggiore. Dire a voce alta che ci troviamo in questa situazione è essenziale. Come lo è trovare modi concreti per favorire una trasformazione, tenendo conto che nel campo della moda gli elementi da considerare sono molti, non da ultimo i tanti posti di lavoro da salvaguardare. Nel provare a modificare i canoni estetici, come del resto anche nell’affrontare i problemi legati alla sostenibilità ambientale, occorre valutare con attenzione tutti gli aspetti in campo».

R.P.: «Gli anni Settanta sono un decennio in cui il movimento femminista e le donne si mobilitano in massa: non solo per il referendum abrogativo sul divorzio, ma anche per la riforma del diritto di famiglia (che sino al 1975 prevedeva la “potestà maritale”), per la depenalizzazione dell’aborto, l’approvazione delle leggi sull’interruzione volontaria della gravidanza e contro la violenza sulle donne, all’epoca ritenuta un reato ai danni della morale e non della persona. Di recente il deputato Alessandro Zan ha presentato una proposta di legge per introdurre il reato di omotransfobia e misoginia, che ha suscitato molte polemiche. Una voce autorevole del femminismo italiano come Lea Melandri sostiene che la misoginia e la violenza contro le donne hanno in comune con l’omo e la trans fobia l’intolleranza nei confronti di corpi che “escono dalla normatività di genere e che rifiutano l’eterosessismo obbligatorio”. Su questo terreno il femminismo è vicino alle istanze Lgbtqi. Anche sul piano della recezione storico-artistica credo che ci sia una convergenza: in Italia la storiografia ha rimosso a lungo l’immaginario visivo creato dalle artiste vicine al movimento femminista. Una rimozione analoga ha segnato la storia di opere e autori impegnati a rappresentare soggettività non conformi ai canoni eteronormativi. La travagliata vicenda editoriale del libro di Lisetta Carmi I travestiti (1972), che ha rischiato di finire al macero, in tal senso è esemplare. Oggi artisti contemporanei come Francesco Vezzoli guardano invece con interesse alle esperienze di quegli anni: le opere di Lisetta Carmi, Paola Mattioli, Tomaso Binga, Libera Mazzoleni, nel 2017 sono state volute dall’artista nella straordinaria mostra TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai alla Fondazione Prada di Milano. In questo numero Vezzoli realizza una serie di ritratti di donne transgender in abiti borghesi. Anche qui troviamo un riferimento agli anni Settanta, e in particolare a Andy Warhol, che, nel 1975, ha esposto proprio in Italia la serie Ladies and Gentlemen, a cui Pasolini ha dedicato un testo pubblicato postumo nel 1976. Sin dagli esordi negli anni Novanta, Vezzoli ha lavorato con grande intelligenza sui nessi tra identità di genere e mass-media, sulle contraddizioni tra rappresentazione e autorappresentazione, come ad esempio nel progetto realizzato con il fotografo di moda Francesco Scavullo. Dal mio punto di vista le opere di Vezzoli hanno un significato politico molto complesso, che talvolta non viene colto pienamente perché, com’è avvenuto all’inizio con quelle di Warhol, le si legge come una presa d’atto delle dinamiche della comunicazione contemporanea, senza comprenderne appieno gli aspetti di critica politica».

M.G.C.: «L’immaginario queer è fondamentale nella moda e va promosso. La moda permette di assumere tante identità, di giocare con il piacere di interpretare ruoli diversi. Ognuno di noi in realtà vive così la moda, più o meno consapevolmente. Difendo l’idea che attraverso la moda ogni giorno, ogni ora, ogni minuto posso assumere una nuova identità. Le differenze sono tante, non solo quelle di genere: le soggettività sono multiple. Apprezzo molto Vezzoli, perché è un artista che sento vicino dal punto di vista generazionale. In più lavora con elementi come il ricamo e la comunicazione, che sono particolarmente significativi per il mondo della moda. Con le sue opere mi fa riflettere perché riesce a esprimere il cambiamento sociale, specialmente quello italiano, e perché spesso pone al centro i legami tra abito e corpo. Vezzoli e io, benché in ambiti diversi, lavoriamo su temi affini e per entrambi la riflessione sul corpo condotta dal femminismo è cruciale. L’abito, in fondo, è “la prima casa dell’uomo” e consente di scegliere quale aspetto di sé comunicare al mondo: partire dalla propria esperienza personale è la strada privilegiata per liberarsi dagli stereotipi».

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