di Carlo Rienzi (huffingtonpost.it, 25 agosto 2020)
L’agenda politica del nostro Paese, ormai, è social-centrica: non passa giorno senza che corra la notizia dell’ultimo tweet, o dell’ultimo post, di questo o quel politico. “Salvini ha scritto su Facebook”, “Di Maio ha detto in diretta”, e via cantilenando, l’arena politica dello Stivale è ormai saldamente radicata nei mondi virtuali, dove le discussioni tra “tifoserie” spopolano, il conflitto porta nuovi utenti e ogni confronto sereno è impossibile.Niente di male, si dirà: è il segno dei tempi. Ma c’è un elemento che dovrebbe farci preoccupare, e molto, perché rischia di inquinare il normale dibattito democratico: riguarda la sempre maggiore diffusione di account fake, o di utenti fasulli, acquistati a peso d’oro per rimpolpare le schiere di questo o quello schieramento. L’ultimo arrivato in questo affollato settore, stando alla stampa, è l’enfant prodige (si fa per dire, visto il corsus honorum personale) Carlo Calenda: un signore che fluttua da una vita da un incarico all’altro, si è segnalato soprattutto per una fitta sequenza di disastri gestionali e si è ora posto alla guida di un esercitino di militanti virtualissimi (e spesso inesistenti). Il Fatto Quotidiano ha chiamato questo meccanismo comunicativo “La Bestiolina”: dall’alto di questo poderoso scranno virtuale, Calenda pontifica giornalmente sulla qualsiasi, immediatamente sostenuto da una ridda di account fedeli e acritici come bonzi tibetani; a vederlo dallo schermo del cellulare, magari di fretta e in metropolitana, si potrebbe pensare guidi il più grande partito del dopoguerra.
Non è però, a quanto pare, il solo. Un’indagine di qualche tempo fa rilevava, anzi, che il numero di utenti “falsi” ha di molto superato quello dei cittadini in carne e ossa anche allargando lo sguardo ai competitor: solo Silvio Berlusconi e Claudio Borghi (con il 42,5 e il 36,9% di seguaci finti, che non sono esattamente pochissimi), su 8 politici presi in esame, arruolavano più persone in carne e ossa che sostenitori fittizi. In vetta alla classifica Nicola Zingaretti, con il 66,8% di fake (!): di questi, gli account inattivi da più di 4 mesi risultavano essere il 23%, mentre il 9% rappresentava profili aperti negli ultimi 90 giorni. Molto ben posizionati, poi, gli altri: Matteo Salvini e Luigi Di Maio su tutti. A dimostrazione che non è questione di Destra o di Sinistra: l’arruolamento di profili inattivi o di umani inesistenti è trasversale come non mai, riguarda tutti e coinvolge tutti, e si rivela semmai come un tratto caratteristico di questa nostra terza, o quarta (ma quante sono?) Repubblica.
Il problema, insomma, c’è eccome – e riguarda quasi tutti i partiti. In questo modo si alimenta l’attenzione del pubblico, che incrocia inconsapevolmente un determinato tipo di contenuto (pensandolo pubblicato da un utente reale), e si aggirano i limiti “naturali” della viralità e della circolazione di contenuti sui social. Un pericolo, per il diritto all’informazione dei cittadini, bello grosso. Ce n’è però un altro, ancora più grave e dirimente per la collettività. Questa deriva rischia di fatto di alterare – in via indiretta e per questo perniciosa – le regole della democrazia rappresentativa, magari anche i risultati delle elezioni.
Non ci credete? Eppure è così, e a dirlo non sono io ma una delle più importanti teorie sulla Comunicazione Politica moderna: secondo la teorica che ha introdotto il concetto di “spirale del silenzio”, Elisabeth Noelle-Neumann, le percezioni che gli individui hanno dei climi di opinione nel proprio ambiente sociale influenzano sensibilmente le loro idee (e quindi, anche i risultati elettorali). In sintesi, la teoria sostiene che l’individuo vive nel timore costante di rappresentare una minoranza rispetto all’opinione pubblica generale. Per non rimanere isolata, la persona – anche se con un’idea diversa rispetto alla massa – non la mostra e cerca di conformarsi con il resto dell’opinione generale, con il risultato finale di omologare e appiattire la discussione.
Noelle-Neumann dimostrò la validità della sua teoria nel corso delle elezioni tedesche del 1976: l’andamento di quella tornata dimostrò che i media (e quindi, anche i social media) possono distorcere il clima di opinione: se un certo punto di vista prevale nei media, esso sarà sovrastimato da coloro che vi sono esposti. Capito, ora, perché non parliamo di bazzecole? Se non corriamo ai ripari, interrompendo questa abitudine all’alterazione e alla falsificazione, 35 anni dopo potremmo ritrovarci – una volta ancora – al punto di partenza. Perché chi droga la diffusione di notizie, i numeri reali e i reali rapporti di forza, avrà anche dalla sua la scusa che “così fan tutti”: ma ciò non toglie che in questo modo a perderci, e di molto, sarà l’assetto democratico. E, certo, anche la verità delle cose.