di Guia Soncini (linkiesta.it, 29 luglio 2020)
Nel 1979 Woody Allen diresse un film, Manhattan, i cui fotogrammi sono ancora oggi tra le illustrazioni più utilizzate da chi voglia scrivere di New York. Non è perché è un gran film (lo è). Non è neppure perché lui è un regista famoso (anzi: c’è un pieno di gente fantasiosa che lo considera un impresentabile schifoso che ha sposato la propria figlia). È perché Manhattan è in bianco e nero.
Il trucco è dichiarato. Nel monologo iniziale il protagonista, uno scrittore, descrive sé stesso come uno che romanticizza allo spasmo New York, una città che per lui esiste in bianco e nero. In bianco e nero sembriamo tutti un po’ meglio: più eleganti, più intensi, più fighi. Quando voglio sentirmi dire “ammazza che pezzo di ragazza che eri” io metto sui social le foto che mi scattarono quando volevo fare l’attrice (non fate quelle facce: anche voi siete stati giovani e dementi). Funzionano perché avevo vent’anni, certo. Ma funzionano soprattutto perché erano in bianco e nero.
Le foto in bianco e nero che state vedendo su Instagram in questi giorni, le foto che tutte le donne medie riflessive che conoscete (e anche quelle che non conoscete ma che sono famose) stanno postando, quelle foto sono figlie di quel principio lì: a cosa servono i social se non a venderci come un po’ più fighi di quanto siamo in realtà? Ma nessuna dolente media riflessiva vuole sembrare una influencer qualunque, una che mette la foto per farsi dire “come sei bella”, una che, santo cielo, si fotografa per vanità. Serve il pretesto. Serve la buona causa. Serve il cancelletto medio riflessivo. Quello di questa volta è doppio. #ChallengeAccepted e #WomenSupportingWomen (abitiamo un tempo in cui quella sul fatto che, se dobbiamo dire una scemenza, la diremo in Inglese è una scommessa assai più sicura di quella sul petrolio).
#ChallengeAccepted significa “sfida accettata”. Quale sarebbe, di grazia, la sfida? Mettere l’autoscatto più donante in dolente bianchennero? Un primo piano d’un brufolo è una sfida (una sfida alla convenzione della vanità, se proprio ne sentiamo il bisogno). Un sorriso col prezzemolo tra i denti non photoshoppato è una sfida (una sfida scema, ma insomma ci siamo capite). Il bianchennero dolente e donante che cosa sfiderebbe? Oltre al senso del ridicolo, che si sente così sfidato ogni giorno sui social che s’è chiuso in casa e ha staccato il telefono.
#WomenSupportingWomen, poi, cosa mi rappresenta? Il dovere di scrivere “stai benissimo” sotto il bianchennero che avete accuratamente selezionato per raccogliere cuoricini, altrimenti non sono femminista? Il dovere di gioire se un festival cinematografico ha film diretti da donne, senza badare a come siano quei film ma solo ai gameti di chi li ha diretti? Una mia amica novantunenne dice che stronze come le donne nella sua vita non ne ha mai incontrate, ma è chiaro che lo dice solo perché ha vissuto in un’epoca senza autoscatti per buone cause, sono sicura che al primo bianchennero con cancelletto cambierà idea e i nostri le sembreranno gameti assai solidali.
Secondo il New York Times, che lunedì s’è incaricato di spiegarci come fosse cominciata questa scemenza, la prima donna-che-appoggia-le-altre-donne che si è autoscattata in bianchennero è una giornalista brasiliana, dieci giorni fa. Lunedì erano già a tre milioni di foto ma, precisava gongolante una portavoce di Instagram, chissà quante in più che non hanno messo il cancelletto giusto (erano troppo impegnate a scegliere lo scatto migliore).
The Cut è il canale femminile del New York Magazine. Ha, nei confronti di tutto ciò che è “causa delle donne”, uno spirito critico lievemente inferiore a quello che palesano le piante grasse. È un posto in cui qualunque lagna della Ocasio-Cortez è eroica, qualunque accusato d’aver fatto una battutaccia a una donna è uno schifoso maniaco cui va dato l’ergastolo, qualunque dolenza media riflessiva è sacrosanta. L’altro ieri, The Cut ha pubblicato un articolo sui bianchenneri che sarebbero sfide e solidarietà in cui, tra le altre cose, rievocava l’ultima volta che avevamo avuto, sui social, il coraggio di cianciare di sfida accettata. Era stato quando la “sfida” era pubblicare una foto di dieci anni prima, 2009-2019. Una foto di dieci anni fa nella peggiore delle ipotesi mi mostrerà con la pelle dieci anni più compatta. Stessimo giocando a Monopoli, mi parrebbe più un cartoncino “possibilità” che uno “imprevisti”.
La portavoce di Instagram, richiesta di spiegare cosa diamine fosse ’sta sfida (e non potendo rispondere “mica è colpa nostra se abbiamo utenti bisognose di sentirsi non gratuitamente vanitose su un social di foto, mica è colpa nostra se siete sceme”), ha detto che il cancelletto intendeva «celebrare la forza, diffondere l’amore, e ricordare a tutte le donne che appoggiarsi l’un l’altra è tutto». Perfino The Cut chiosava «scorrete le foto, non vi sentite già più forti?», e si chiedeva «ma questo sarebbe femminismo?». Capisci che il tuo contenutismo fotogenico ha un problema quando persino una testata ontologicamente priva di senso del ridicolo lo ridicolizza.