di Guia Soncini (linkiesta.it, 20 luglio 2020)
Hanno tutti torto. Nel caso che ci ha intrattenuti nel weekend, quello in cui la cultura alta (qualunque cosa essa sia) si sente offesa da Chiara Ferragni fotografata davanti a un Botticelli in una pausa d’un servizio di Vogue Hong Kong scattato agli Uffizi, hanno tutti torto, come d’altra parte sempre accade nelle polemiche social, una categoria filosofica che è sempre una gara a chi è più scemo o sa peggio sostenere le proprie ragioni.Hanno torto gli offesi, quelli che cianciano di “mercificazione della cultura”, evidentemente convinti che Michelangelo dipingesse gratis. Hanno torto i difensori, quelli che “criticare Chiara Ferragni è maschilismo”, come se criticare donne uomini piante non fosse il passatempo quotidiano dei passanti sui social network. Ha torto il marito della Ferragni, che dice che le contaminazioni tra pop e arte sono continue ma solo con la Ferragni si fanno polemiche. Il suo è il torto più interessante. È un equivoco comprensibile, il suo: non ha un Google Alert su Beyoncé, e quindi non è al corrente delle prefiche della cultura che ne piangono la morte quando Beyoncé e Jay-Z girano un video al Louvre. Crede, com’è tipico dei millennial, che le cose accadano per la prima volta quando accadono a lui o a un suo familiare. Ignora che indignarsi per le contaminazioni (una parola fessissima, chiedo scusa per averla utilizzata) è lo sport preferito dall’intellettuale italiano – ma non solo italiano.
Nel 2017 i greci, non esattamente un’economia florida, rifiutano 56 milioni da Gucci (la cifra è poi stata elegantemente smentita dall’azienda) per una sfilata all’Acropoli. «Abbiamo il dovere di proteggere l’Acropoli, un simbolo globale di democrazia e libertà», dichiara senza mettersi a ridere la ministra della cultura. Quando leggo la frase, mi viene in mente quella direttrice di newsmagazine che, guardando le foto d’un reportage dall’Africa, sospirava: «Come sono belli questi bambini poveri». Sempre nel 2017 c’è il caso che unisce Gucci e gli Uffizi, due pietre dello scandalo in una volta sola. Gucci dona due milioni per il restauro del Giardino di Boboli e in cambio gli Uffizi li fanno sfilare lì, nel giorno di chiusura del museo. Un mecenatismo piuttosto diffuso, e che non toglie niente al pubblico dell’arte: Chanel, per dire un marchio della moda che anche i più inattrezzati conoscono, ha sfilato al Louvre, per dire un museo che anche chi non visita musei conosce, varie volte nel giorno di chiusura del museo negli ultimi quarant’anni, e a nessuno è mai parso uno scempio. Almeno, a nessuno di quelli consapevoli che un vestito di Alexander McQueen è più opera d’arte d’una crosta di Teomondo Scrofalo e che un Mondrian di Yves Saint-Laurent è opera d’arte quanto un Mondrian di Piet Mondrian.
Certo, poi ci sono gli intellettuali italiani. Quelli che prima scrivono che gli Uffizi sono, con la foto della Ferragni, diventati «uno sfondo notevole per collezioni di poverismo prêt-à-porter», e poi si difendono dalle accuse di misoginia dicendo «A me come veste la Ferragni non dispiace» (Christian Raimo su Facebook sabato); ignorando che la forza della Ferragni è vestire malissimo, essere la perfetta incarnazione di questo tempo che non vuole l’irraggiungibilità ma l’immedesimabilità, sembrare in Fornarina anche quando è in Dior. Solo che, per capirlo, occorre essere uno che sappia distinguere non solo Botticelli da Van Gogh ma anche Monella Vagabonda da Prada. Certo, poi ci sono gli intellettuali italiani. Quando Gucci sfilò agli Uffizi, Tomaso Montanari, uno su cui si può sempre contare per leggere un’opinione pensata male, disse che ci eravamo sputtanati e che, diversamente dai greci, avevamo perso la dignità. Tomaso Montanari direttore di newsmagazine ideale, pare di vederlo che guarda reportage di bambini denutriti ricoperti di mosche e li ammira: sono poveri ma dignitosi.
Abbiamo polemizzato per la sfilata di Fendi a Fontana di Trevi (dopo che Fendi ne aveva finanziato il restauro: se avessimo avuto Twitter nel Cinquecento le avremmo cantate ai Medici, come osavano commissionare opere a Michelangelo invece di lasciare l’arte libera dal vil danaro). Abbiamo polemizzato per i venticinque milioni di euro che Diego Della Valle si era permesso di donare per il restauro del Colosseo; giacché in cambio, in orario di chiusura al pubblico, egli aveva avuto l’ardire d’organizzare una cena all’interno del monumento. Era il 2014, e il Manifesto, con toni così sobri da far invidia a Montanari, scriveva: «Suscita rabbia e riprovazione per il gesto di volgare arroganza ma costituisce anche uno schiaffo morale al senso della Storia […]. Come si può allestire un banchetto in un luogo dove la sabbia dell’arena si mescolava al sangue di uomini e bestie? Cattivo gusto, sì, ma anche sfoggio di potere e denaro a tutti i costi». Non vorrei troppo affollare la rassegna stampa del marito della Ferragni, ma ci sarebbe anche la volta, era l’anno scorso, che Dolce & Gabbana sfilarono nella Valle dei Templi, e anche lì polemiche per la «finalità sostanzialmente commerciale», santo cielo che orrore, si sa che l’arte deve vivere di puro spirito.
Fossi un multimilionario della moda, scialerei tutto in carburante per gli aerei privati, e si fottessero i vostri monumenti, i vostri musei, il vostro complesso di superiorità basato non si capisce su cosa (ah, sì: i duemila anni di storia. Anzi: Storia, come scriverebbe il Manifesto). Fossi Chiara Ferragni, la prossima foto da milioni di cuoricini me la farei al Louvre, al Metropolitan, in un museo qualunque d’un Paese qualunque che non disprezzi la moda, l’unica forma d’arte che contribuisce al prodotto interno lordo e che, se si presta a fare da traino a commerci minori quali i biglietti d’un museo, deve pure prendersi gli insulti come una zia ricca e magnanima che t’abbia pagato gli studi e perciò – giacché la gratitudine è un peso insostenibile – sia oggetto di sempiterno rancore.