di Stefano Pistolini (linkiesta.it, 6 luglio 2020)
Gli album di Kanye West sono un’incognita. Perfetti intarsi di hip-hop, poesia ed elettronica, diretti nei contenuti e smaglianti nella forma. O dei pasticci involuti, presuntuosi e spinosi. Il nuovo singolo appena pubblicato, Wash us in the blood, fa intravedere un Kanye partecipe del dramma razziale in atto, è ispirato e fa ben sperare per God’s Country, l’album in arrivo. Anche la testa di Kanye West è un’incognita, ancor più grossa. È un territorio lunare, in cui i confini – ad esempio tra realtà e fantasia, tra Sé e il resto, tra arte e show business – sono confusi, o forse non esistono.
Re dei ciclotimici, portabandiera dei bipolari, capitano della sovreccitata depressione, iperattivo, arrogante, con un serbatoio creativo rifornito da esoteriche sorgenti, Kanye ribolle di idee, di progetti e di ossessioni ricorrenti. Superata quella antipatizzante per Taylor Swift, adesso il rapper torna sui social con una vecchia fissazione: vuole diventare il Presidente degli Stati Uniti d’America – come rivela un novenne ai nuovi compagni di classe, quando è il suo turno di fare il proprio autoritratto. Proposito, però, che suscita perplessità, riprovazioni e ironie di vario ordine allorché esce dalla bocca di un miliardario capace di accentrare potere e influenza in diverse nicchie della sua nazione. Già, perché Kanye per anni ha allestito una visione politica (diciamo così) surreale, dichiarandosi fervente elettore repubblicano, negazionista dello schiavismo («Quando senti che la schiavitù è durata per 400 anni, somiglia a una scelta») e ultrà di Donald Trump, sostenuto durante la campagna del 2016 ed entusiasticamente incontrato un paio d’anni fa alla Casa Bianca.
Un rendez-vous passato alla storia per il linguaggio sboccato di Kanye (per lui tutti sono dei son of a bitch), per gli apprezzamenti rivolti al presidente («Adoro questo ragazzo») e per la condiscendenza di Trump, che arrivò ad ammettere che una candidatura di West alla futura presidenza aveva ottimi motivi per esistere. Nel 2024 – intendeva lui. Invece Kanye, che tra le prerogative ha un rapporto sfasato col tempo – può annunciare l’uscita di un nuovo disco 12 ore prima dell’evento –, ha ceduto all’impazienza e ora ha ufficializzato via Twitter la discesa in campo per la tornata elettorale del prossimo novembre, presentandosi come terzo incomodo “indipendente”, in corsa col presidente in carica e con Joe Biden: «Per realizzare la promessa dell’America, credendo in Dio, unificando la visione e costruendo il futuro», ha scritto sul suo account da 30 milioni di follower. Il che rappresenta una notizia perché, da un lato, è chiaro che al 43enne veterano del rap della politica tradizionale importi meno di nulla: «Quando ho dichiarato d’essere un fan di Trump, mi hanno detto che sarei stato cacciato dalla comunità nera perché da noi ci si aspetta un pensiero monolitico e la fede democratica». Ma che sposta, invece, la questione in un terreno più insidioso, di natura psichica: Kanye ha percepito, come una vibrazione, che non poteva più demandare la sua incandescente visione e che è arrivato il momento della sfida in prima persona. Oltreoceano, due figure di peso hanno accolto gioiosamente il suo proposito: la consorte Kim Kardashian, stella fissa dell’immaginario trash, che del resto per settimane si sarà sciroppata a cena Kanye con la litania del «domani lo faccio!»; e poi Elon Musk, altro pazzo visionario di prima fascia, pirotecnico inventore della Tesla e di dozzine d’altre scorciatoie per il futuro.
Perenni protagonisti della civiltà della celebrità, è chiaro che queste tre figure esulano dall’America normale e reale, quella massacrata dalla pandemia, generate in uno spazio parallelo, regolato dalle leggi del clamore e della velocità. Una santissima trinità, Kanye-Kim-Elon, difficile da inventare anche per i più spericolati sceneggiatori, ma che potrebbe totalizzare un certo richiamo presso gli elettori, diciamo così, più disincantati. Motivo per cui qualche solerte analista si è messo a conteggiare: a chi darebbe fastidio questa candidatura, semmai dovesse concretizzarsi, rendendo ancor più surreale lo sprint per la presidenza? Esiste una qualche percentuale di afroamericani che voterebbero per uno di loro che mette in giro teorie balzane e che è dotato di una coscienza di razza a dir poco a intermittenza? Insomma, è solo un trip balenato nella mente di Kanye la notte della festa dell’Indipendenza, una boutade che si arenerà appena il suo staff dovrà compilare i moduli per la candidatura, oppure la cosa metterà le gambe, perché farebbe decollare lo spettacolo elettorale, altro che quel morto di sonno di Joe Biden? Pensate solo ai ricami su una teorica Kardashian first lady («Sono fiero di annunciare che Kim è ufficialmente miliardaria» ha appena dichiarato Kanye, tra le pernacchie dei poveri cristi), che renderebbe d’incanto Melania più presidenziale di Laura Bush e stabilizzerebbe la politica americana in quella sfera del reality verso cui ha già fatto un deciso passo con l’elezione di Trump, l’unico che, secondo Kanye, ha la sua stessa «energia del dragone». «Hai tutto il mio sostegno!» gli ha scritto eccitato Musk, vicepresidente in pectore nel “terzo partito” che non esiste ma che, in passato, ha fatto danni, se ripensiamo ad antesignani come Ross Perot e Ralph Nader, che, coi voti che sottrasse ad Al Gore, gli impedì d’arrivare alla Casa Bianca.
Dunque cristallizziamo la vicenda, in attesa di pirotecnici sviluppi – se ci saranno, e noi propendiamo per il “no”. E diamo un’ultima occhiata alla personalità di quest’artista unico e folle, dotato del tocco di Mida (ha appena salvato il marchio di abbigliamento Gap associandolo al suo brand Yeezy, oggi giudicato infinitamente più cool dai giovani), traversato da scariche di narcisismo, crisi d’irrequietezza, epifanie mistiche, dall’inclinazione a spararle grosse, dal bisogno di affermarsi, espandersi molto oltre quel mondo della musica, da sempre l’unico a legittimarlo. Ci sono troppi farmaci nella sua dieta quotidiana (si è sottoposto a liposuzione), troppi residui d’insicurezza provenienti da un’adolescenza complicata, c’è l’esaurimento nervoso che torna a cicli, c’è quella pelle nera che gli sta stretta, perché per lui Obama era troppo tenero, Bill Cosby era innocente, Martin Luther King è un modello superato e sulle banconote americane il nero che dovrebbe andarci è Michael Jordan. Sfidare il ridicolo non preoccupa un’anima in fiamme come la sua. Perché la realtà è sempre altrove, la musica non basta e, se si nasce convinti di essere gli eletti, il passaggio definitivo verso cui si finisce per tendere, a dispetto d’una nazione che alza gli occhi al cielo, è appunto un’elezione. Ma una che conti per davvero.