di Guia Soncini (linkiesta.it, 13 giugno 2020)
C’è un interrogativo che accompagna i dibattiti in epoca di social, adattandosi al tema del dibattito, ma sempre con la stessa risposta: chi è più scemo? Sono peggio quelli che abbattono le statue, o quelli che ci spiegano l’importanza delle statue? Quelli che dicono che va tutto bene e non c’è alcun allarme sociale, o quelli che dicono che donne e neri e giovani stanno peggio oggi che cent’anni fa? La risposta è sempre che sono sceme entrambe le categorie, indi per cui la gente ragionevole si guarda bene dal dibattere sull’Internet, schierandosi con una delle due scemitudini.In questi tre anni e mezzo, costante è stato l’interrogativo: sono più scemi quelli che dicono che Melania Trump è una schifosa plutocrate complice del marito, e per provare ciò ripubblicano le foto di quando faceva la modella e arrotolava collane di brillocchi come fossero spaghetti; o quelli che dicono che è una vittima, una prigioniera, una che dobbiamo salvare dal suo matrimonio evidente replica di quelli del Racconto dell’ancella? Tutti e due, tutti e due. L’unica sveglia, i meno scemi l’avevano capito da un pezzo, è Melania. Che, non per nulla, si chiama come la regina delle gatte morte e dell’ottenere ciò che vuoi senza mai perdere la compostezza, Melania Hamilton (che per la verità si chiama Melania solo in doppiaggese, nel Via col vento originale era Melanie – ma ora non cavilliamo). Melania che, quando si sposarono e Donald non era ancora l’impresentabile-in-chief, ebbe la copertina di Vogue, e André Leon Talley, che la accompagnò a Parigi a provare l’abito da Dior, racconta che non ha mai visto nessuna stare così tante ore sui tacchi alti senza mai un cedimento. Melania, con la sua educazione siberiana.
Adesso c’è un nuovo libro, l’ha scritto la giornalista del Washington Post Mary Jordan, e il titolo, The art of her deal, richiama un libro di Donald degli anni Ottanta, The art of the deal (in italiano tradotto da Sperling & Kupfer con L’arte di fare affari). L’arte più di lei che di lui di fare buoni affari, potremmo tradurlo, se non fosse troppo lungo come titolo, e se il titolo perfetto non l’avesse già fornito la prima signora Trump. Nel 1996, quando Trump era sposato con la seconda moglie, Marla, la prima, Ivana, comparve in una deliziosa commedia intitolata Il club delle prime mogli. Alle protagoniste – Goldie Hawn, Diane Keaton, Bette Midler – variamente disperate, Ivana nel ruolo di sé stessa dava un unico consiglio: «Non prendetevela: prendetevi tutto». Mi piace pensare alla giovane Melania che applaude nel buio del cinema. Dice Mary Jordan che, chi l’avrebbe mai detto, Melania è rimasta a New York, durante il primo anno di presidenza, non perché non voleva far cambiare scuola a Barron. Bensì per far cadere dall’alto la propria presenza, rinegoziare l’accordo prematrimoniale, farsi mettere per iscritto che nella divisione dell’eredità Barron avrà parti uguali rispetto ai fratellastri (negli Stati Uniti non c’è, come in Italia, una legge che imponga di lasciare a ogni figlio la stessa quota di proprietà).
A giudicare dalle anticipazioni del Washington Post (il libro esce la settimana prossima), non ci sono rivelazioni incoerenti col personaggio, è tutto abbastanza in linea con quel che di Melania aveva già capito qualunque osservatore attento. Non è vero che parla fluentemente quattro o cinque lingue, dice il giornalista che firma l’anticipazione col tono di chi ha uno scoop dirompente. Ma, benedetto figliolo, l’hai mai sentita parlare? Parla Inglese come una sbarcata a Ellis Island l’altro ieri, e vive lì da decenni, come vuoi che parli lingue di Paesi in cui non abita? Sarebbe stata Melania, secondo la Jordan, a volere Pence come vice (non le sembrava uno che potesse smaniare per la presidenza e oscurare il marito), e a spingere per il secondo mandato. Inoltre, sempre detto col tono dello scoop clamoroso, i due dormono in camere separate. Come tutti i ricchi, Mary. (Un giorno qualcuno svelerà a noi classe media che condividere un letto non è una dimostrazione di forti sentimenti, ma di scarsità dei metri quadri, e quel giorno il castello delle nostre illusioni ci crollerà addosso uccidendoci).
Melania è dedita alla costruzione del proprio mito almeno quanto Donald, dice Mary, e – santo cielo – ci ha sempre mentito. Non è vero che è laureata, non è vero che non si è mai rifatta, non è vero che era una top model (quest’ultimo dettaglio era invero noto a chiunque sfogliasse riviste di moda nel Novecento, non è che ci volesse il giornalismo investigativo). È cresciuta nella Jugoslavia comunista, è ambiziosa, vuole prendersi tutto (Ivana era cresciuta in Cecoslovacchia: il libro che vorrei studierebbe questo penchant di Donald per l’educazione siberiana). Per costruire la sua nuova immagine, ha tagliato i ponti con tutti: i suoi vecchi amici non l’hanno mai più sentita. Il WP riporta questo dettaglio come dovessimo scandalizzarcene, presi dalla mistica dell’avere gli stessi amici di quando non si era nessuno (una delle autocertificazioni più preoccupanti della gente ricca e famosa). A me è venuta subito in mente Il profumo del successo, serie del 1984 in cui Morgan Fairchild interpretava la proprietaria d’un’agenzia di modelle che aveva cambiato nome e mentiva sulle proprie origini, non volendo che nessuno raccontasse la sua infanzia di miseria provinciale.
Su TV8 è partito ieri sera Venti20, programma sul primo ventennio di questo nostro secolo. Nella puntata della prossima settimana c’è Costantino Vitagliano. Se eravate vivi e consumatori di cultura popolare all’inizio di questo secolo sapete tutto di Costa e Ale, la storia uscita da Uomini e donne di Maria De Filippi che fece per l’Italia pre-Instagram quel che Chiara Ferragni avrebbe fatto per l’Italia post-Instagram (cioè: darci uno star system casareccio, visto che non siamo in grado di averne uno industriale). Venerdì prossimo Costantino scosta la tenda del mago di Oz e dice, col tono di chi stia svelando un’ovvietà, perché la maggior parte delle sue immagini d’epoca lo ritraeva con mano davanti alla bocca in posa corrucciata: «Mi dicevano, “Ma quanto pensi”, no: è che mi devi comprare l’orologio». Costantino con la mano davanti alla faccia era come Melania che arrotolava brillocchi: vendeva merci, ed era una delle merci che vendeva. Scemi noi se non l’abbiamo capito subito.