di Guia Soncini (linkiesta.it, 3 giugno 2020)
«E adesso abbiamo il signor James Baldwin, star della serata, che è stato finora seduto ad ascoltare con attenzione, c’è un entusiasmo pazzesco da parte di tutta la platea, finora ha ascoltato i pareri degli altri e ora porterà nel dibattito la voce della sua esperienza» (voce fuori campo quando JB, il più famoso scrittore nero americano del Novecento, sale sul podio in un’aula di Cambridge per il dibattito Has the American Dream been achieved at the expense of the American Negro? con l’intellettuale conservatore William Buckley, 1965).Il principale problema degli avvocati italiani è spiegare, all’imputato che devono difendere, cosa non deve aspettarsi: no, in aula non diranno «Obiezione, vostro onore». Non importa quanto il cliente sia erudito, può essere anche laureato in Giurisprudenza ma comunque ci resterà male: un processo che non è come quelli che ha visto alla tele non è un vero processo. Ancora più grande sarà la delusione del cliente quando s’accorgerà che il suo avvocato non riesce a ribaltare la situazione con un discorso ben congegnato. Quando uscì il film su Steve Jobs, lo sceneggiatore Aaron Sorkin raccontò che la figlia del defunto Jobs gli aveva detto che era tanto dispiaciuta di non essere stata in grado di fare al padre un discorso efficace come quello che Sorkin aveva scritto al suo personaggio sullo schermo: proprio non ci capacitiamo che le nostre conversazioni nella vita vera non siano ben sceneggiate quanto quelle inventate dai professionisti degli scambi di battute.
Ma non è solo un problema di battuta pronta. Durante la fase 1 ho rivisto trecentocinquanta puntate di Grey’s Anatomy, e ogni volta che medici che pensavano solo alle loro vite sentimentali risolvevano con un colpo di genio casi impossibili mi sono augurata di non ammalarmi mai: sono ragionevolmente certa che nella realtà resti, di quella rappresentazione, solo l’umana debolezza di pensare ai fatti propri anche se si ha davanti qualcuno che sta morendo, e non il genio d’azzeccare diagnosi impossibili. La vita, faceva dire Woody Allen al proprio personaggio in Crimini e misfatti, non imita l’arte: imita la brutta televisione. Era il 1989, e sospetto non intendesse la serialità prestigiosa, che sarebbe arrivata più tardi, ma certi talk show caciaroni che qui ancora non costituivano la maggioranza del palinsesto. Una delle più famose serie poliziesche americane s’intitola Law & Order (è andata in onda per vent’anni, dal 1990; alcune sue costole vagano ancora nei palinsesti). «LAW & ORDER!», ha twittato lunedì Donald Trump. Credo intendesse invocare ordine e legge nel mezzo dei disordini, ma naturalmente ha dato la stura a tutt’uno spirito di patate e chiunque gli rispondeva con titoli di serie televisive.
A gennaio è stato pubblicato uno studio, Normalizing Injustice, su come l’essere consumatori di finzione televisiva influisca sulla percezione che gli americani hanno della realtà. Quelli che hanno compilato lo studio hanno guardato moltissimi polizieschi, e parlato con chi li fa. Hanno esaminato ventisei serie, su piattaforme a pagamento e su reti generaliste, da Orange is the new Black a Goliath passando per Le regole del delitto perfetto. Hanno analizzato la tv d’un Paese in cui i poliziotti possono essere anche stronzi o corrotti (basta aver visto mezza puntata di NYPD o di The Wire per saperlo); chissà se sapessero che in Italia per girare una scena in cui ci siano dei poliziotti in divisa bisogna che la sceneggiatura venga approvata dal corpo di polizia, la cui immagine non deve ledere. Tuttavia i risultati dello studio non sono esattamente incoraggianti, neppure nella patria della complessità narrativa. «Gli spettatori cambiano canale se la vittima del reato è nera, quindi quel personaggio va riscritto e reso bianco» è una delle testimonianze contenute. Le infografiche a prova d’ottusità ci dicono che quelli che la serie ci presenta come i buoni per cui tifare fanno molte più cose orrende dei personaggi cattivi, inducendoci così a credere che un poliziotto, o comunque uno dei “buoni”, sia giustificato se infrange le regole, che si tratti di falsificare una prova o d’interrogare un sospetto senza avvocato.
La prima cosa che ci si chiede è: ma non dovremmo, essendo adulti, saper distinguere tra realtà e finzione? Poi ci ricordiamo d’esserci meravigliati perché il nostro avvocato non chiamava il giudice «vostro onore», o perché il pronto soccorso era assai più diroccato e meno efficiente di quelli della tele. Ci ricordiamo di conoscere qualcuno che ci ha spiegato, seriamente, che la Cia manipola la realtà perché ha visto Saul in Homeland e ha pensato che se lo diceva la tv doveva esser vero. «Il razzismo in America non è peggiorato: è filmato», ha detto Will Smith. Ieri, mentre leggevo Stefano Pistolini spiegare che l’America è sempre stata questa roba qui, pensavo che la differenza era che c’era meno materiale video, e adesso ci sono i cellulari che fanno le foto. Non è una differenza marginale: per rielaborare artisticamente le violenze della polizia sui neri del 1967 ci sono voluti cinquant’anni (Detroit, di Kathryn Bigelow, è del 2017), un film o una serie su George Floyd arriveranno probabilmente nel giro d’un paio di stagioni. E, quando lo dirà per finta la tv o il cinema, sarà vero davvero. (Vale anche per i drammi meno tragici: ogni volta che vedo una foto della spazzatura di Roma penso che, povera Raggi, anche fosse Golda Meir nulla potrebbe compensare la sfiga di arrivare a governare una città da sempre sporchissima quando quella sporcizia viene fotografata quasi più dei tramonti sul Tevere). Quando Pistolini, tra i suoi esempi, ha citato Rodney King mi sono chiesta non tanto quanti lettori non avrebbero riconosciuto quel nome perché nel 1991 non c’erano o non leggevano i giornali; neanche quanti avrebbero cercato le immagini su YouTube; mi sono più che altro chiesta quanti l’avrebbero riconosciuto perché, ehi, il pestaggio di Rodney King da parte della polizia compariva in qualche scena della serie su OJ, no? L’hai visto al tg? No, l’ho visto in una serie, era un attore. Era tutto finto? Era tutto vero.
Una volta, se volevi sentire James Baldwin dire che lui si era trasferito a Parigi per non doversi più guardare le spalle nel perpetuo terrore che qualcuno lo uccidesse in quanto nero, come gli accadeva in America, dovevi sintonizzarti sul canale giusto la sera in cui il dibattito andava in onda, oppure aspettare cinquant’anni perché stralci di quella discussione finissero in un documentario (I am not your Negro, 2016) o in un libro (The fire is upon Us, 2019). Adesso ci sarebbero migliaia di filmati fatti coi cellulari del pubblico in sala, o scaricati dai televisori, e condivisi ovunque, dai social a YouTube. La fine della privacy è anche la fine della possibilità di nascondersi dietro a un «non potevo immaginare». «È un notevole shock scoprire che tu, tu che da bambino tifavi per Gary Cooper che uccideva gli indiani, tu eri gli indiani» (James Baldwin, 1965).