Addio Bill Whiters, voce del Soul e dell’America in lotta contro la pandemia

di Stefano Pistolini (ilfoglio.it, 3 aprile 2020)

Proprio in questi giorni una delle sue hit più amate, Lean on me, che si traduce “Appoggiati a me”, è diventata uno di quegli inni collettivi coi quali, in tempi di tregenda, ci si dà coraggio a vicenda. Per una malattia di cuore non connessa con la pandemia di Coronavirus in corso è passato a miglior vita Bill Withers, 81 anni, gloria della soul music, autentico hit-maker durante gli anni Settanta.

Ph. Gilles Petard / Redferns / Getty Images
Ph. Gilles Petard / Redferns / Getty Images

Proprio quella canzone oggi riscoperta dall’America travolta dall’epidemia, Bill l’aveva concepita rievocando gli anni difficili della sua vita. Era cresciuto a Slab Fork, disgraziata cittadina mineraria del West Virginia, uno degli Stati più poveri dell’Unione, dov’era appunto uso comune, nei momenti difficili, aiutarsi in tutti i modi tra vicini di casa, nel sano spirito congregativo americano. «Era un uomo solitario, con un grande cuore che lo teneva legato al mondo» hanno scritto i suoi nel dare l’annuncio della scomparsa, «parlava alla gente con onestà ed era capace di unirla».

Riconosciuto come uno dei padri consacrati della soul music del Novecento, Withers aveva chiuso prematuramente la carriera nel 1985, scivolando a far parte di quel repertorio classico della black music a cui avrebbe attinto, e nel quale avrebbe cercato ispirazione, un’infinità di artisti delle successive onde del R&B e dell’hip-hop. Un pezzo come Ain’t no sunshine, ispirato alla gospel music e più in genere alla musica religiosa afroamericana, appartiene di diritto al supremo american songbook. Così come quella Lovely day celebre per la nota finale tenuta dalla voce di Withers per diciotto interminabili secondi. O la già citata Lean on me, che non solo Barack Obama ma anche Bill Clinton vollero venisse suonata alle rispettive celebrazioni per l’inaugurazione dei loro mandati presidenziali.

Tre Grammy Awards e l’ammissione nel 2015 alla Rock & Roll Hall of Fame completano il pedigree di un artista che, nella migliore tradizione, arrivò al successo al termine di un percorso tormentato: nove anni di servizio in Marina, il trasferimento in California a cercar fortuna, un lavoro in una fabbrica di tavolette per i cessi, mentre di notte sognava la musica. Fu la sua vellutata voce baritonale a portarlo in alto, fino al debutto discografico, nel 1971, sostenuto produttivamente da una vecchia volpe come Booker-T Jones. Negli anni Settanta la sua carriera decolla, approdando a una grande etichetta come la Columbia Records e sfornando successi a ripetizione, sebbene i suoi rapporti col mondo della discografia restassero sempre difficili.

«Prima non mi pagavano» racconterà in un’intervista molti anni dopo. Lui, per ripicca, arriva a cancellare i nastri di un intero nuovo album, o si rifiuta di incidere per sette anni di fila, al culmine della fama. Il documentario del 2009 che racconta la sua storia, Still Bill, lo ritrae però come un uomo appagato e ormai del tutto disinteressato alle dinamiche di un business al quale si sente estraneo. I suoi veri legami restavano con posti e con gente di tutt’altro tipo, come quel posto dimenticato da Dio, dov’era nato, dove la gente fatica a tirare avanti ma non smette di sentirsi coesa. Gli avrebbe fatto piacere, nell’America in sofferenza di queste ore, sentir risuonare la sua Lean on me, intonata da infermieri e da sbarbatelli, come un grande messaggio di incoraggiamento e di empatia.

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