di Stefano Pistolini (linkiesta.it, 28 marzo 2020)
Bisogna inoltrarsi in una selva oscura, vestiti come esploratori. Per poi imbattersi nella canzone che ha la forma di una torre misteriosa. Sulla porta c’è l’autore, il venerabile maestro Bob Dylan, 79 anni a maggio, tirato a lucido come per una serata, giacca di lustrini, costoso cappello crema, pantaloni oscenamente a sigaretta.Un ghigno sul volto: è soddisfatto, ci ha preparato una sorpresa e pregusta il piacere di vederci alle prese col gioco a cui non riesce a rinunciare: quello dell’enigma e del riconoscimento, tra lui, bravo a mettere in versi sottilmente esoterici la nostra stessa rappresentazione, e noi, impegnati a decifrare e destinati a cadere nei tranelli che ha disseminato nel percorso.
Del resto non sappiamo mai dire di no: Dylan ci sveglia una mattina con la sua nuova stravaganza, un pezzo da 17 minuti (record nella sua produzione) che lancia il tempo della lentezza come antidoto all’epoca della fretta – in questo frangente della prigionia e del grande sconcerto – e ci invita a un lungo giro di giostra, un viaggio in circolo, in cui ci si muove sul posto, perché l’idea che ci espone vocalmente è quella di un mantrico diorama della cultura americana. O, se volete una metafora che renda l’esperienza di questa canzone, è come se entraste in quella torre di Bob: dietro la porta v’imbatterete in una stretta scala a chiocciola, che vi sembrerà senza fine, così stretta da costringervi a rimirare, man mano che salite, i mille quadri, disegni, foto e ritagli che l’organizzatore della messinscena ha disseminato sulle pareti: segni, graffi, segmenti, tracce, istantanee.
Evocazioni delle esperienze incancellabili di una vita americana, che è stata tale glorificando i sacramenti della sua natura: il movimento, l’irrequietezza, la curiosità, l’intraprendenza, il desiderio, il cambiamento, la spietatezza. Rappresentazione succulenta, introdotta dal suono di un pianoforte liquido, sul quale subito Dylan, con un registro magistrale, una specie di gola mediana, che ricorda le tecniche di chissà quale monaco di qualche monastero, attacca a tracciare la sua storia. Il titolo della rappresentazione, scritto sul cartello fuori della porta, non lascia dubbi sugli argomenti: Murder most foul, il delitto più atroce, più disgustoso – quale volete che sia, nella mente del baby-boomer originale, se non l’ammazzamento di John Fitzgerald Kennedy e i suoi misteri, nella macelleria invisibile allestita per le sbigottite strade di downtown Dallas?
Certo, rispettando la sua dispettosa tradizione, Dylan non manca il gusto della citazione: quel titolo, Murder most foul, è un versetto dell’amato Shakespeare in Amleto: quando un gruppo d’attori mette in scena uno spettacolo alla corte del re di Danimarca. La rappresentazione è Trappola per topi e, spiegano loro, riguarda il più crudele degli omicidi, il “murder most foul”. Sarà stata la scintilla per Dylan, l’idea di uno sterminato lamento nella nobile forma della murder song, come quelle che fin dal Medioevo venivano intonate dai cantastorie nelle piazze del mercato, bollettini in musica degli ultimi accadimenti capitati nei dintorni, per informare i paesani che facevano la spesa e magari sganciavano una moneta (Bertolt Brecht, un Bob Dylan ante litteram, fece lo stesso esperimento con Mack the Knife). L’assassinio per antonomasia, per Dylan e per la sua generazione, è quello di JFK, peccato mortale senza ritorno. Un atto che l’ha sempre ossessionato, se 21enne, nel 1963, tre mesi dopo il fatto, Dylan passò da Dallas e guidò per le strade attorno a Dealey Plaza, fermando la sua station-wagon qua e là, scendendo a osservare, come un detective (lo racconta Robert Shelton, in No direction home).
Il tono con cui Bob s’inoltra nella performance è quello di un sacerdote che attacca la messa cantata, solenne e abituale, rivisitando un copione mandato a memoria. La struttura è semplice: il pianoforte percorre una fluida struttura circolare, una specie di blues dilatato e infinito, un violino ne contrappunta pigramente dei passaggi, percussioni lontane conferiscono profondità al paesaggio. Prima il racconto, poi l’invocazione. Tutta l’America, come in Nashville di Robert Altman. Il resoconto dell’ammazzamento di JFK è chiaro, impulsivo, cinematografico: Dylan passa da un punto di vista all’altro, da un’angolazione a quella opposta, dal presidente che rende l’anima a Dio in grembo alla consorte ai suoi killer, ai mandanti che hanno già in mente il “dopo”, alla nazione inconsapevole e falsamente innocente che guarda senza vedere, attraverso il mirino della cinepresa di Zapruder, il voyeur del Grassy Knoll. L’eliminazione dell’intruso viene portata a termine con fortunata approssimazione, volgarità, con nuda, primigenia violenza. È un sacrificio, un rituale, un passaggio, l’interruzione di un disturbo, l’eliminazione dell’alieno. Ralenti, indizi, patchwork: un Nightmare on Elm Street, la strada dove Kennedy viene ammazzato, nel giorno «in cui l’era dell’Anticristo era cominciata», quando «l’anima di una nazione è stata strappata / ed è piombata in una lenta decadenza», allorché «erano passate 36 ore dal giorno del giudizio» e Lyndon Johnson giurava come nuove presidente.
Finita la tragica ricostruzione, Dylan passa alla seconda fase della cerimonia: si rivolge in alto, all’altare dove siede il disc jockey, il suo uomo dei dischi, delle dediche e delle richieste, Wolfman Jack, da noi conosciuto solo con American Graffiti, ma che per loro, gli americani decrepiti, è l’eterno Renzo Arbore della gioventù, dei tempi felici e dell’amore, il padrone del rock’n’roll. Cosa vuole Dylan dal Lupo Solitario? Vuole la memoria che ha reso impagabile questi anni, vuole le perle della lunga collana del pop, vuole le stelle più luminose, vuole voci e canzoni, vuole fotogrammi e turbamenti, vuole il sexy e i brividi, vuole il Grande Monumento, vuole Altamont e Woodstock (e vuole risentire anche quella magnifica battuta che viene dalla sua infanzia: «Francamente me ne frego, Miss Scarlett!»), vuole Lindsey Buckingham e Stevie Nicks, Don Henley e Glenn Frey, vuole Dickey Betts alla chitarra con l’Allman Brothers Band, vuole Buster Keaton e Harold Lloyd, vuole il junk di Art Pepper, Oscar Peterson, Stan Getz e Charlie Parker, vuole Nat King Cole e Marilyn, vuole Wake up Little Suzy e Let the good times roll e invoca il Mistery train, il treno misterioso di Elvis dissotterrato da Greil Marcus per connettere Presley a Dylan, nella sottile, frenetica intuizione che dentro la musica americana del Novecento corre un fluido magico, capace di riportare il tempo indietro, fino all’inizio del grande esperimento della nuova nazione, l’avventura più esaltante dell’umanità.
La voce di Bob rimane ferma e gentile lungo tutto l’elenco, nell’esecuzione del suo omaggio definitivo. Nel presentare il pezzo, Dylan ha scritto: «È una canzone inedita, che ho registrato tempo fa, che potreste trovare interessante. Mettetevi al sicuro, state attenti e Dio vi accompagni». Se non è un testamento questo.