di Carlo Renda (huffingtonpost.it, 4 marzo 2020)
Uomo, bianco, della East Coast, ultrasettantenne, capelli bianchi (quando non tinti) e radi in testa, passo lento, abbigliamento classico, nel taschino una scatolina con qualche pillola da prendere ogni giorno. Il Super Tuesday non avrà dato risposta a tutte le domande in vista delle presidenziali americane del 3 novembre 2020, ma ha fornito un identikit chiaro del prossimo inquilino della Casa Bianca: contro Donald Trump è corsa a due, fra Joe Biden e Bernie Sanders.Diciamolo subito, probabilmente non servirà un trasloco. Donald Trump è il super favorito e servirà un’impresa per impedire al tycoon di indossare per altri quattro anni le vesti di “Potus”, con le quali ha dimostrato di avere grande confidenza. Porta in dote i progressi economici, sbandierati a Davos nella descrizione di un’America “mai così forte”: in tre anni di mandato 6,7 milioni di posti di lavoro in più, la disoccupazione al tasso più basso degli ultimi cinquant’anni, appena il 3,5%. Il reddito medio delle famiglie aumentato del 2,3%, gli stipendi del 2,5%, il tasso di povertà diminuito all’11,8%, il dato più basso dal 2001. Il mercato azionario ancora alle stelle, malgrado il recente scossone “coronavirus”. La campagna elettorale di Trump ha cambiato slogan: dal “Make America Great Again” di quattro anni fa è diventato “Keep America Great”. Un messaggio chiaro, il segnale di una missione compiuta, da portare avanti per mantenere grande l’America. E poco importa nella narrazione del Presidente che il Pil non corra alla velocità promessa, oppure che i risultati siano stati raggiunti lasciando ai posteri un debito spaventoso.
Per chi ha sorpreso il mondo quattro anni fa, scalando Washington da outsider assoluto, la rielezione appare una passeggiata. La storia dice che un secondo mandato non si nega praticamente a nessun presidente. La dote economica dà poi un boost incredibile a Trump, che può contare anche sul sostegno ormai incondizionato e praticamente acritico del Partito Repubblicano, a cui si contrappone un Partito Democratico in cerca di leader e di direzione politica, spaccato fra moderati e progressisti. The Donald ha sfruttato al massimo la confusione sotto il cielo dem, trasformando le primarie in una sorta di sit-com che si aggiorna ogni giorno di nuove puntate sul suo profilo Twitter: si alternano gli sfottò e i personaggi, da “Crazy Bernie” Sanders a “Sleepy Joe” Biden, da “Mini Mike” Bloomberg a “Pocahontas” Elizabeth Warren. Trump ha da subito sminuito Bloomberg, tifato per Sanders, temuto Biden.
Bloomberg ha speso una fortuna per lanciare la sua campagna, ma la corsa non è solo questione di soldi. Il miliardario ex sindaco di New York si è dimostrato un perfetto signor nessuno nell’America profonda, privo inoltre di quella personalità trascinante che fu la chiave vincente di Trump nel 2016. Bloomberg ha fallito su tutta la linea la sfida del Super Tuesday – è arrivata solo la vittoria nelle isole Samoa –, inevitabile la presa d’atto e il ritiro. Prevedibile il sostegno a Biden.
Sanders è il “socialista” che accende la passione di alcuni e spaventa altri, racconta un Paese diverso da quello attuale, ma non compatta i dem e non attrae gli swing voters. Verso di lui convergeranno presto i consensi di Elizabeth Warren, ma nulla più di questo. Perciò Trump lo considera l’avversario più morbido, probabilmente a ragione. “Stanno effettuando un altro golpe contro Bernie!” ha twittato nei giorni scorsi.
Biden è tutta un’altra storia. È molto conosciuto e amato negli States, ha un passato glorioso, è rispettato da alleati e oppositori, è un politico moderato, rassicurante, il candidato naturale alla grande sfida per la Casa Bianca. Dall’esperienza al fianco di Barack Obama porta con sé la grandissima popolarità nell’elettorato afro-americano, e quindi un peso rilevante negli Stati del Sud. È inoltre in grado di compattare i dem, come dimostra il recentissimo sostegno ricevuto da tre pezzi grossi del partito come Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Beto O’Rourke. Fra Biden e Trump è battaglia aspra da mesi: il Presidente ha dimostrato di temerlo, al punto da cercare prove a suo carico nel Kievgate che lo ha portato a un passo dall’impeachment.
Quello che Donald Trump non poteva immaginare è di potersi giocare perfino la carta dell’età. È il più giovane nella corsa alla Casa Bianca: avrà 74 anni a novembre contro i 77 di Joe Biden e addirittura i 79 di Bernie Sanders. La partita si giocherà anche sulla cartella clinica: Trump sbandiera la sua vigoria, malgrado i 110 kg di peso e la passione irrefrenabile per la cucina da fast-food. Nell’ultimo report medico, il responsabile medico Sean Conley ha consigliato al Presidente di perdere peso, ha detto di aver aumentato la quantità di farmaci per abbassare il colesterolo Ldl, quello cattivo, e aumentare l’Hdl, quello buono. Biden ha quattro problemi di salute: battito irregolare, alta concentrazione di grasso nel sangue, reflusso gastrico e allergie stagionali. Prende tre farmaci sotto prescrizione (Eliquis, Crestor e Dymista), e due da banco (Nexium e Allegra). Sanders ha dovuto sospendere alcuni mesi fa la sua campagna elettorale dopo dolori al petto, un ricovero e un’operazione d’urgenza per l’occlusione di un’arteria. Da allora fa orecchie da mercante alle richieste di diffondere la propria cartella clinica.
La Casa Bianca come un Reparto Geriatria. Ma la questione anagrafica è soprattutto un tema politico. Il mondo va a una velocità tale che stare al passo risulta complesso anche per i 40-50enni, figuriamoci per i “matusa” di Washington. Le sfide politiche, tecnologiche, ambientali, richiedono grande visione ed energia fisica e psicologica. Gli Stati Uniti avranno una leadership fra le più anziane nel mondo. Per i democratici sono lontanissimi i tempi d’oro, quando potevano candidare ed eleggere Bill Clinton ad appena 46 anni, terzo presidente più giovane di sempre, o Barack Obama, primo presidente nero eletto alle soglie dei 50 anni.
La corsa dem ha progressivamente visto sfilarsi e fermarsi le nuove generazioni del partito democratico: “Mayor Pete” Buttigieg ha sorpreso per qualche settimana, mostrava un volto nuovo, primo candidato dichiaratamente omosessuale alla presidenza, ma anche e soprattutto esempio di buona amministrazione nella sua città dell’Indiana. Presto ha capito di non avere le armi per arrivare in fondo. Meglio quindi fermarsi per tempo ed essere una pedina per Biden, come ticket o come uomo di Governo. Un anno fa si parlava solo di Beto O’Rourke e delle casse piene di donazioni per la sua campagna elettorale: doveva partire dal Texas per conquistare l’America, ha perso perfino le elezioni di mid-term in casa sua, ha molto ridimensionato le sue pretese fino a scegliere l’endorsement per Biden e per l’unità del partito. Più deludente ancora la carriera recente di Julien Castro, l’ennesimo finito nella categoria “nuovo Obama”. C’è poi Alexandria Ocasio-Cortez, giovane stella newyorkese, che ha messo tanta della sua energia per sostenere Bernie Sanders e la sua visione progressista, ma anche lei in posizione subordinata.
Il messaggio che dà una competizione fra settantenni è quello di una generazione mancata di cinquantenni in grado di subentrare ai grandi vecchi. È il tempo di rassicurare, non di sognare. Non si fan rivoluzioni, perché non le si riesce neanche a immaginare. Essere eletti presidente degli Usa è un business da milioni di dollari, non è per tutti e non basta un buon programma o un volto nuovo. I più giovani fra i dem avranno forse pensato che è meglio aspettare un turno e presentarsi più forti fra quattro anni, quando potrebbero ritrovarsi davanti un Partito Repubblicano in macerie – privo dell’improvvisato totem Trump a cui si è aggrappato negli ultimi anni – e la strada più agevole per la Casa Bianca. Per la new generation democratica, Donald Trump sarebbe stato un osso troppo duro. Lo sarebbe anche per Sanders. Solo Biden parte con qualche speranza di farcela. Ma da qui a novembre solo un imprevisto dirompente – il principale indiziato è il Coronavirus, ma nessuno può sinceramente augurarselo – può compromettere la corsa di Trump.