di Carlo Blengino (ilpost.it, 22 gennaio 2020)
C’è un articolo di legge nell’ordinamento americano che ha segnato l’evoluzione di Internet e ha cambiato il nostro modo di comunicare, il nostro modo di informarci e di relazionarci, il nostro modo di viaggiare e di fare acquisti: sono solo 26 parole, ma senza di esse Internet non sarebbe probabilmente ciò che è oggi, nel bene e nel male.«No provider or user of an interactive computer service shall be treated as the publisher or speaker of any information provided by another information content provider». Il comma, inserito dal Congresso nel 1996 nella sezione 230 del Communications Decency Act, può esser liberamente tradotto così: «Nessun fornitore di servizi Internet e nessun utilizzatore di tali servizi può esser ritenuto responsabile quale editore o quale autore di una qualsiasi informazione che sia stata fornita da terzi».
Per come è nata e per come è stata interpretata dalle Corti statunitensi, la regola è unica nel panorama giuridico mondiale ed è stata la base su cui è cresciuta e si è consolidata l’egemonia delle piattaforme americane. La storia di quel breve comma, tutt’altro che banale e dalle conseguenze per certi versi contro-intuitive, è oggi raccontata in un libro, The twenty-six words that created the Internet di Jeff Kosseff. Conoscere quella storia aiuta a comprendere (se non a rispondere) ad alcune delle domande di questo tempo circa il ruolo e le responsabilità delle grandi piattaforme di condivisione del Web.
1. Dalle librerie al Web
È necessario fare un passo indietro, agli albori del Web. Negli Stati Uniti, all’inizio degli anni Novanta, i forum, i primi siti di recensioni, commenti e rating on line, i primi mercati virtuali e in generale i siti di condivisione di contenuti generati dagli utenti debbono affrontare le prime cause legali: grazie ai loro servizi, diffamazioni, truffe, oscenità, pedopornografia, sfruttamento o agevolazione della prostituzione – tutti mali antichi – trovano inevitabilmente nuove efficienti vie. Oggi potremmo aggiungere all’elenco ulteriori insidie: la radicalizzazione e il terrorismo, l’hate speech (qualunque cosa significhi), discriminazioni varie, le fake news e in generale il tema della “disinformazione”.
Nei tribunali americani, dove a dettar legge sono i precedenti giudiziari, inizia l’esercizio pericolosissimo delle analogie tra on line e off line; la ricerca del precedente legale per determinare la responsabilità dei gestori dei siti porta a Smith v. California. Nel 1959 la Corte Suprema Federale aveva affrontato il caso di un libraio di Los Angeles condannato a 30 giorni di galera per aver venduto un libricino, un oscuro romanzetto vagamente erotico, titolato Sweeter than life, ritenuto dal Procuratore della California osceno e indecente. La Corte, a fronte della difesa del libraio che asseriva di non aver mai letto il libercolo incriminato e di possedere in negozio migliaia di volumi di cui non poteva conoscere il contenuto, stabilisce che la responsabilità può esser affermata solo se viene provata la piena consapevolezza del contenuto illecito ceduto o quanto meno la sussistenza nel caso concreto di fatti o circostanze che avrebbero dovuto portare a tale consapevolezza.
Per la Suprema Corte una più stringente responsabilità del mero distributore di contenuti – ad esempio, un onere di verifica preventiva – avrebbe minato in radice l’intero settore del commercio dei libri e avrebbe creato una inaccettabile limitazione alla libertà di espressione sancita dal primo emendamento della Costituzione americana. La sentenza Smith diviene il precedente di riferimento per i distributori di contenuti di terze parti: non solo per le oscenità e la pornografia, ma per tutte le possibili illegalità e per tutti i media, per le emittenti televisive, le radio e progressivamente anche per i gestori dei siti Web. Su Internet, però, le cose si complicano e il principio non funziona.
La regola Smith non è molto differente dalle regole che nel 2000 vengono adottate qui da noi, dall’Unione Europea, per regolamentare i servizi di hosting, ovvero i siti che ospitano contenuti di terze parti (e dunque i social network, i market place alla eBay, i siti di recensioni alla TripAdivisor, Wikipedia e in parte gli stessi motori di ricerca). Non c’è un obbligo di controllo preventivo e non c’è responsabilità se il gestore del sito si limita a ospitare e diffondere contenuti caricati o creati da terzi, ma un’attività di moderazione, di indicizzazione, di filtro o di editing dei contenuti rischia di far perdere quell’irresponsabilità. Se infatti il libraio Smith ordina i libri per genere e fa una sezione “erotica” e se consiglia in quello scaffale, per incrementare le vendite, la lettura di Sweeter than life (magari non perché l’ha letto, ma solo perché è il più venduto), difficile risparmiargli (nel 1959) i 30 giorni di galera. Il libraio perfettamente irresponsabile è il libraio analfabeta, ma, come intuibile, il servizio offerto dal libraio analfabeta rischia di esser un pessimo servizio.
La passività del gestore del sito, mero intermediario della comunicazione, diventa con la sentenza Smith elemento fondamentale per non rispondere delle illegalità diffuse tramite il sito stesso, ma questo rischia di rendere i servizi di condivisione e di hosting meno sicuri e “civili”, proprio perché (necessariamente) non presidiati da parte del gestore stesso contro le potenziali illegalità. Il principio di Smith vs California – che, come detto, con poche varianti regola a tutt’oggi la responsabilità dei provider in Europa (e in buona parte del mondo) – rende teoricamente pericoloso per i gestori qualsiasi tentativo di moderazione o di filtro dei contenuti veicolati: l’adozione di stringenti politiche di policy con selezione e filtro dei contenti comporta per il provider scelte editoriali foriere di responsabilità (se modera e sceglie, non può non sapere), esponendo il gestore a costose cause legali per gli inevitabili errori.
2. The Wolf of Wall Street: CompuServe v. Prodigy
La contraddizione emerge quasi subito negli Stati Uniti e l’occasione la offre “The Wolf of Wall Street”, quello del film di Scorsese, nella causa per diffamazione Stratton Oakmont, Inc. v. Prodigy Services Co. Un post diffamatorio anonimo che accusava di truffa e frode la società di Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio nel film) era apparso nel 1994 sulla piattaforma della Prodigy Communications Corporation, che offriva un servizio di aggregazione di contenuti on line molto noto nei primi anni Novanta negli Stati Uniti. Pochi anni prima, nel 1991, in applicazione del principio del libraio Smith, una causa simile (Cubby, Inc. v. CompuServe Inc.) aveva visto frustrate le buone ragioni della diffamata Cubby con piena assoluzione del provider CompuServe, ritenuto mero distributore irresponsabile.
Il problema nella diffamazione della Stratton Oakmont era che Prodigy, a differenza della concorrente CompuServe, aveva una policy piuttosto stringente per i contenuti veicolati sulla sua piattaforma: aveva pubblicato delle linee guida per i contenuti degli utenti che venivano costantemente monitorati e veniva utilizzato un innovativo software di screening progettato per rimuovere il linguaggio offensivo. Era insomma un provider “responsabile” (sic!), nel senso di un gestore coscienzioso, attento ai contenuti che diffondeva sul suo sito, tanto da esser definito nel 1994 dal New York Times come un servizio “family-oriented”. Purtroppo, la buona volontà fu controproducente. L’irresponsabilità del libraio di Smith v. California, riconosciuta nella sentenza contro la concorrente CompuServe, non era applicabile a Prodigy, che compiva precise e dichiarate scelte editoriali. In Europa diremmo oggi che Prodigy era un hosting attivo e non un mero intermediario, e dunque, caso per caso, potenzialmente responsabile dei contenuti diffusi. Avrebbe dovuto/potuto accorgersi del post diffamatorio.
Nel 1995 la Corte Suprema dello Stato di New York condanna Prodigy, affermando: «La scelta consapevole di Prodigy, finalizzata ad avere un vantaggioso controllo editoriale, l’ha esposta a una maggiore responsabilità rispetto a CompuServe e alle altre reti di computer che non fanno tale scelta». Qualcosa non funziona. Nel 1995 non eravamo ancora nel Web 2.0 ma era già evidente che la libertà di espressione esercitata da chiunque possedesse una connessione Internet recava seco non solo incredibili vantaggi economici, culturali e sociali, bensì anche una fisiologica quota di contenuti dannosi e/o illegali.
La moderazione, il controllo e il filtro preventivo dei contenuti generati dagli utenti iniziava ad esser indispensabile per le imprese che avessero voluto offrire siti di qualità (o, come dicono gli americani, “family friendly”); purtroppo, la conseguente responsabilità editoriale avrebbe reso quel modello di business assolutamente insostenibile. A complicare le cose il fatto che i confini e i limiti della libertà di espressione, nei Paesi democratici, sono da sempre quanto di più complesso e cangiante il diritto possa creare; cogliere e valutare la legittimità di uno scritto o di un’immagine è molto complesso e l’errore nella moderazione è fisiologico, soprattutto in servizi di condivisione che nel Web iniziavano ad avere dimensioni significative con milioni di utenti. Se un amico chiede “tutto bene in famiglia?” è una cortesia, se a scriverlo è Totò Riina è una minaccia. Per moderare debbo sapere chi è amico e chi è Totò Riina, e valutare il contesto. Legare la responsabilità del provider all’adozione o meno di scelte necessariamente imperfette di moderazione avrebbe scoraggiato in radice i servizi basati su contenuti generati dagli utenti.
Dalle due vicende CompuServe e Prodigy emerge un’unica alternativa: o si stabilisce in Internet una regola di irresponsabilità assoluta capace di schermare anche le scelte inequivocabilmente editoriali del gestore del sito che eccezionalmente, a differenza di quanto avviene sui media tradizionali, non avrebbero potuto generare responsabilità, così da incentivare politiche di auto-moderazione e auto-controllo da parte dei fornitori dei servizi on line, oppure nessuna impresa avrebbe investito su siti di condivisione di contenuti generati dagli utenti. Con buona pace della libertà di espressione a cui la Rete ci ha abituati, senza una forte protezione legale dei provider i due terzi dei servizi Web che oggi utilizziamo probabilmente non sarebbe mai nato. Non Youtube, non Facebook, non Twitter, né eBay o TripAdvisor. Neppure Wikipedia avrebbe probabilmente retto! Forse neppure Google Search, che indicizza contenuti di terze parti. L’affermazione può apparire azzardata, ma proviamo a chiederci perché nessuno di questi servizi sia nato e cresciuto in Europa, dove, con qualche timida differenza, vige ancora, di fatto, il principio della libreria di Smith v. California. Senza una adeguata protezione dei provider, nel 1995 il Web ha rischiato di diventare una specie di grande televisione multicanale con, forse, qualche moderata interazione degli utenti sui contenuti e sulle informazioni comunque generati dal provider. Temo sia il Web che molti vorrebbero oggi, in Europa e non solo!
Pochi mesi dopo la sentenza Prodigy, nel 1996, il Congresso fa la sua scelta, in nome della libertà di espressione e ovviamente di un liberismo che massimizzi i benefici economici connessi alla nuova economia del Web: «Nessun fornitore di servizi Internet e nessun utilizzatore di tali servizi può esser ritenuto responsabile quale editore o quale autore di una qualsiasi informazione che sia stata creata e fornita da terzi».
3. Lo scudo e la spada
La norma è inserita oggi all’art. 47 dell’U.S. Code, la raccolta delle leggi federali americane, sotto la rubrica Protection for private blocking and screening of offensive material, ed è detta la “protezione del Buon Samaritano”. Il potere delle piattaforme americane di cancellare – o di non cancellare –, di filtrare e di bloccare contenuti e utenti senza incorrere in responsabilità nasce da quelle 26 parole del 1996.
Con l’eccezione delle violazioni del copyright, che seguono una diversa regolamentazione, negli Stati Uniti anche il sistema della segnalazione e della pronta cancellazione dei contenuti offensivi/illegali (il ben noto “notice and take down”) è rimesso alla libera scelta del gestore del servizio e non è, come da noi, un obbligo di legge generalizzato foriero di specifiche responsabilità in caso di mancata rimozione. Alcuni siti particolarmente aggressivi – che in Europa non durerebbero 24 ore, come www.theDirty.com (il nome è già un programma) – dichiarano espressamente di respingere qualsiasi richiesta di cancellazione, quale che sia il grado di offensività del contenuto caricato da terzi.
Per le Corti statunitensi la consapevolezza del materiale illecito diffuso non è in grado di penetrare lo scudo di irresponsabilità della sezione 230, se l’informazione è fornita da terze parti. Delle illegalità risponderà sempre e solo l’utente, se e quando rintracciabile, ma non il provider. Creatività e investimenti nei 20 anni successivi genereranno il Web che oggi conosciamo: le imprese, protette dallo scudo impenetrabile dell’irresponsabilità, danno il meglio e talvolta il peggio di sé. I benefici sono sotto gli occhi di tutti, come lo sono gli inevitabili costi sociali.
Dal 1996 ad oggi sono molte le vittime di quelle 26 parole. Il libro di Jeff Kosseff è anche il racconto di decine di vite impunemente danneggiate da diffamazioni, truffe, violazioni della privacy, stalking, vendette pornografiche, estorsioni commesse sul Web; è la storia terribile delle vittime, talvolta minorenni, dei più aggressivi mercati del sesso sviluppati attraverso servizi di condivisione in Rete. È il racconto di provider tutt’altro che neutrali e inconsapevoli: provider “irresponsabili” in senso morale e tecnico-giuridico. Nessuna delle vittime ha avuto soddisfazione nelle aule giudiziarie statunitensi contro i fornitori dei servizi Web. Lo scudo ha funzionato ed è diventato una spada. In una delle prime cause in applicazione della sezione 230, Blumental v. Drudge del 1998, il giudice scrive: «Il Congresso ha ritenuto che Internet avesse bisogno di un campo di gioco diverso. Non importa quanto ingiusto o illogico. Internet è diverso».
4. Il campo e le regole del gioco
Il successo e il conseguente potere globale delle piattaforme americane poggia su quelle 26 parole del 1996. I famosi (e fumosi) termini di servizio (ToS), che tutti sottoscriviamo sui social e sui vari servizi di condivisione e di cui molto si discute qui in Europa, non sono un semplice problema contrattuale tra privati, viziato da una evidente asimmetria tra i contraenti, ma con la sezione 230 assumono una valenza ben diversa. Sono, quelle condizioni di servizio, l’attuazione di una vera e propria delega rilasciata in bianco nel 1996 dal Congresso degli Stati Uniti alle imprese commerciali per il governo dei contenuti in Rete.
Negli Stati Uniti sono le imprese, e dunque la comunità degli utenti/clienti e in ultima analisi il “salvifico” mercato (nel cosiddetto “mercato delle idee”), a decidere quali contenuti possono esser diffusi e resi accessibili in Rete, quali debbono o possono esser bloccati. E per qualunque americano delegare al mercato è una scelta di democrazia: ogni diversa regolamentazione imposta dallo Stato federale violerebbe il primo emendamento della loro Costituzione: «Il Congresso non potrà emanare leggi per limitare la libertà di parola o di stampa». La sezione 230 del Communications Decency Act nasce e diventa, nell’interpretazione delle Corti americane, un super primo emendamento: diventa la libertà di espressione gonfiata di anabolizzanti al servizio delle imprese della Silicon Valley.
Non so se Internet avesse davvero bisogno di un campo di gioco diverso; certo, oggi che dalla Rete passa praticamente ogni aspetto della nostra vita, noi ci ritroviamo a giocare in quel medesimo campo ma con regole diverse. In Europa beneficiamo dei servizi “made in Usa” ma nel contempo subiamo (e soffriamo) gli effetti di quella norma eccezionale che, come dice Jeff Kosseff, ha creato l’Internet che abbiamo oggi. Ad ogni orrore (vero o presunto) che inevitabilmente appare sui social ci chiediamo sdegnati come sia stato possibile che il governo e la regolamentazione del discorso pubblico nella vecchia Europa sia oggi nelle mani “irresponsabili” di alcune grandi società americane.
Questa storia lo spiega in parte. Ma il punto nodale a mio parere è che a ben vedere non abbiamo neanche chiaro che Internet vorremmo davvero, noi europei. Davvero lo Stato e i nostri Tribunali governerebbero meglio la libertà di espressione in Rete rispetto alle imprese americane? Io ho molti dubbi.
Il libro The twenty-six words that created the Internet non ha avuto alcuna attenzione da parte della stampa tradizionale. Ho reperito un solo articolo che ne parlava, pubblicato da la Repubblica nel novembre scorso. La cosa che mi ha colpito è il titolo del pezzo: Le 26 parole che uccisero Internet. Mi sono chiesto perché quelle 26 parole avrebbero, secondo Repubblica, ucciso e non creato Internet, e soprattutto qual è l’Internet vittima dalla libertà di espressione secondo il noto quotidiano italiano. Datevi voi la risposta, dopo aver letto del Daspo per l’hate speech o della carta di identità per accedere ai social.