di Giovanni Gavazzeni («Il Venerdì di Repubblica», 22 febbraio 2019)
«La vita di Toscanini cominciò con l’invenzione del fonografo e della lampadina a incandescenza e terminò all’alba dell’era spaziale». Iniziò «prima che Wagner e Verdi scrivessero i loro ultimi capolavori e finì nell’era di Boulez e Stockhausen; una carriera di sessantotto anni, svolta in venti Paesi europei, nord e sud-americani e mediorientali, e un’esistenza privata divisa tra l’amore per la famiglia e una vita erotica spericolata».Così Harvey Sachs inquadra la parabola della vita del grande musicista, nel suo Toscanini. La coscienza della musica. Perché la storia della sua vita è quella di una “coscienza”: la pietra di paragone di un’epoca intera. Perfino per i bastian contrari per progetto o per i nemici per ragioni di opposizione politica. Tale fu il magnetismo dell’interprete, la dirittura del cittadino, la sanità morale dell’artista.
Anche chi conosce le precedenti opere di Sachs dedicate a Toscanini non può non rimanere ammirato dalla sintesi operata su una mole di documenti vastissima. E senza censure, vedi le centinaia di lettere alla sua amante più duratura, Ada Colleoni, moglie dell’insigne violoncellista Enrico Mainardi, nelle quali il Maestro non temeva di definire Hitler e Mussolini “delinquenti” e “ladri” e le leggi razziali “roba da Medio Evo” (sapendo che potevano essere lette daIl’Ovra).
La monumentale biografia (non monumento) smentisce certi rilievi poco informati sulla scarsa predilezione di Toscanini per la musica contemporanea, raccontando non solo che tenne a battesimo in prima assoluta o in prima per l’Italia capolavori di Puccini, opere di Leoncavallo e di Giordano, ma novità di Wagner, Brahms, Ciaikovskij, Debussy, Dukas, arrivando fino a Sciostakovic’ e Samuel Barber. E soprattutto stabilendo un’uguaglianza storica; non Wagner contro Verdi, ma Wagner e Verdi.
Dopo la guerra, con il ritorno trionfale e la riapertura della Scala, non approfittò della situazione, sostenendo la dignità dell’Italia davanti all’eccesso di umiliazioni dei vincitori e si mantenne alieno anche dall’omaggio della classe politica. Arrivò persino a rifiutare il Senato a vita, dopo la nomina invitagli dal presidente Einaudi. Volle rimanere sempre quello che era: un uomo semplice, burbero, capace di infiammarsi per i sacri testi che amava anche da nonagenario.