di Mary Beard (The London Review of Books / internazionale.it, 22 novembre 2019)
Nel 1915 la scrittrice femminista statunitense Charlotte Perkins Gilman pubblicò un romanzo divertente ma inquietante, Terra di lei (Donzelli, 2011). Come si può intuire dal titolo, è ambientato in una nazione immaginaria di sole donne che esiste da duemila anni in un angolo del pianeta ancora inesplorato.
Una splendida utopia: pulita e ordinata, collaborativa, pacifica (perfino i gatti hanno smesso di uccidere gli uccellini), perfettamente organizzata in tutto, dall’agricoltura sostenibile all’ottimo cibo, dai servizi sociali alla scuola. Tutto grazie a un’innovazione miracolosa: le madri fondatrici della nazione sono riuscite a perfezionare la tecnica della partenogenesi. E le donne danno alla luce solo altre femmine, senza l’intervento dei maschi. Non c’è sesso nella Terra di lei.
A un certo punto questo mondo viene sconvolto dall’arrivo di tre maschi: Vandyck Jennings, il narratore-bravo ragazzo; Jeff Margrave, che a causa della sua galanteria rischia di essere rovinato da tutte quelle donne; e Terry Nicholson, un personaggio veramente orribile. Terry si rifiuta di credere che non ci siano uomini in giro a comandare: com’è possibile che le donne siano in grado di occuparsi di tutto? Quando finalmente è costretto ad accettare che le cose stanno proprio così, decide che la Terra di lei ha bisogno di un po’ di sesso e di dominio maschile. Alla fine della storia Terry viene espulso senza troppe cerimonie dopo che uno dei suoi tentativi di dominio, in camera da letto, finisce male. In questo romanzo l’ironia è presente a vari livelli. Per esempio, Perkins Gilman gioca sul fatto che le donne non si rendono conto dei loro straordinari successi. Hanno creato da sole uno Stato esemplare, di cui essere orgogliose, ma quando si trovano a confronto con i tre ospiti indesiderati accettano con deferenza le competenze e le conoscenze maschili, e sono intimorite dal mondo esterno dominato dai maschi. Hanno realizzato un’utopia, ma pensano di aver sbagliato tutto.
Oltre a descrivere una comunità immaginaria di donne che fanno tutto a modo loro, il libro di Perkins Gilman solleva questioni più complesse, che vanno da come si riconosce il potere femminile alle storie – a volte divertenti e altre volte allarmanti – che ci raccontiamo al riguardo da migliaia di anni, almeno in Occidente. È noto che le donne vengono messe a tacere nel discorso pubblico. Qualche settimana fa alla senatrice statunitense Elizabeth Warren è stato impedito di leggere una lettera di Coretta Scott King, la vedova di Martin Luther King, di fronte ai colleghi del Senato. Warren è stata zittita dai senatori repubblicani ed esclusa dal dibattito. Non solo: alcuni giorni dopo altri parlamentari maschi hanno letto la stessa lettera e non sono stati contestati. È vero, stavano cercando di sostenere Warren. Ma le norme che valevano per lei, a quanto pare, non valevano per Bernie Sanders e per gli altri senatori che hanno letto la lettera. Il diritto di essere ascoltati ha un’importanza cruciale. Ma vorrei riflettere più in generale su come in Occidente abbiamo imparato a guardare le donne che esercitano il potere; vorrei esplorare le basi culturali e le forme della misoginia nel mondo della politica e in quello del lavoro. Vorrei riflettere su come e perché le definizioni convenzionali di “potere” (o di “conoscenza”, “competenza”, “autorità”) siano servite a escludere le donne.
Nel 2017 ci sono più donne in posizioni di potere rispetto a dieci anni fa. Sono leader politiche, commissarie di polizia, amministratrici delegate, giudici. Sono ancora in minoranza, ma di certo sono più numerose che in passato. Negli anni Settanta le donne formavano solo il 4 per cento dei parlamentari britannici, mentre oggi sono circa il 30 per cento. Tuttavia, il modello mentale e culturale di persona di potere è ancora decisamente maschile. Se chiudiamo gli occhi e cerchiamo di evocare l’immagine di un presidente o di un professore universitario, la maggior parte di noi non vede una donna. Non abbiamo un modello di come si presenta una donna di potere, a parte il fatto che somiglia molto a un uomo. I tailleur pantalone d’ordinanza indossati da molte leader occidentali, da Angela Merkel a Hillary Clinton, sono comodi e pratici, e possono segnalare il rifiuto di essere trattate come manichini (il destino riservato a tante mogli di politici). Ma sono anche un modo – come abbassare il timbro della voce – per far apparire il femminile più maschile, per adattarsi al ruolo di potere. La regina Elisabetta lo sapeva bene quando disse di avere “il cuore e lo stomaco di un re”.
Uno sguardo all’antichità
Le donne sono ancora percepite come esterne al potere. Le metafore che usiamo per parlare del modo in cui le donne arrivano al potere – sfondare la porta, espugnare la cittadella, rompere il soffitto di cristallo o semplicemente farsi avanti – sottolineano questa estraneità. Le donne al potere sono viste come persone impegnate ad abbattere barriere o, in alternativa, a prendersi qualcosa a cui non hanno pieno diritto.
Un titolo del quotidiano londinese The Times all’inizio di gennaio del 2017 rendeva bene quest’idea. L’articolo parlava della possibilità che tre donne assumessero gli incarichi di capo della polizia metropolitana, presidente della Bbc e vescovo di Londra. Il titolo era: “Women prepare for a power grab in church, police and Bbc” (Le donne si preparano a prendere il potere nella chiesa, nella polizia e nella Bbc). Finora l’unica ad averlo fatto realmente è Cressida Dick, che dal 22 febbraio guida la polizia di Londra. Anche se sappiamo bene che chi scrive i titoli è pagato per attirare l’attenzione, l’idea di poter presentare la nomina di una donna a vescova di Londra come una “presa di potere” è un segno che dobbiamo esaminare con più attenzione i nostri schemi culturali sul rapporto delle donne con il potere.
Gli asili nido sul posto di lavoro, gli orari che tengono conto delle esigenze familiari, i programmi di tutoraggio e altri provvedimenti simili sono importanti strumenti di emancipazione, ma sono solo una parte della soluzione. Se vogliamo dare alle donne come genere – e non solo ad alcune di loro – il posto che gli spetta all’interno delle strutture di potere, dobbiamo riflettere di più su come pensiamo alle donne e perché. C’è un modello culturale che è servito a togliergli il potere? In cosa consiste esattamente? Da dove viene?
A questo punto è utile guardare indietro al mondo classico. Più spesso di quanto ce ne rendiamo conto, usiamo ancora espressioni greche per rappresentare l’idea di donne al (e fuori dal) potere. Nel repertorio della mitologia greca c’è una lunga schiera di personaggi femminili di potere. Nella vita reale, invece, le donne del mondo antico non avevano diritti politici riconosciuti formalmente e la loro indipendenza economica e sociale era limitata. In alcune città, come ad Atene, le donne sposate non si facevano vedere quasi mai fuori di casa. Ma il teatro ateniese in particolare e l’immaginario greco antico in generale hanno offerto una serie di personaggi femminili indimenticabili, come Medea, Clitennestra e Antigone.
Tuttavia non sono dei begli esempi. Sono donne che abusano del potere. Lo assumono in modo illegittimo, causando caos, divisioni nello Stato, morte e distruzione. Sono ibridi mostruosi, molto lontani dall’idea di donna secondo la concezione greca. Le loro storie seguono una logica inflessibile: le donne devono essere spogliate del potere, rimesse al loro posto. Nei miti greci le donne fanno un uso talmente confuso del potere da giustificarne l’esclusione nella vita reale, mentre il perdurare del dominio maschile ne esce legittimato.
In una delle più antiche tragedie greche, l’Agamennone di Eschilo, andata in scena per la prima volta nel 458 a.C., l’antieroina Clitennestra rappresenta in modo orribile questa ideologia. Nell’opera diventa l’effettiva sovrana della sua città mentre il marito, Agamennone, è lontano per combattere la guerra di Troia. Nell’esercizio del potere, Clitennestra smette di essere una donna. Riferendosi a lei, Eschilo usa ripetutamente termini maschili e il linguaggio della mascolinità. Nei primi versi, per esempio, il suo personaggio è descritto come ἀνδρόβουλον: una parola difficile da tradurre, ma che approssimativamente significa “con intento maschile” o “che pensa come un uomo”. Il potere che Clitennestra rivendica illegittimamente diventa distruttivo quando uccide Agamennone al suo ritorno dalla guerra. L’ordine patriarcale è ripristinato solo quando i figli di Clitennestra complottano per ucciderla.
C’è una logica simile nelle storie sulle amazzoni, una razza mitica che secondo gli scrittori greci esisteva in qualche luogo ai confini settentrionali del mondo. Più violente e bellicose delle abitanti della Terra di lei, con il loro mostruoso reggimento minacciavano di sopraffare il mondo civile della Grecia e dei suoi uomini. Il femminismo moderno ha cercato in tutti i modi di dimostrare che le amazzoni sono esistite davvero, con la loro società governata da donne e per le donne. Ma, in realtà, le amazzoni erano un mito creato da maschi greci. L’unica amazzone buona era un’amazzone morta o una che era stata domata in camera da letto. Il messaggio di fondo era che spettava agli uomini salvare la civiltà dal dominio femminile.
Difficile ibrido
Altre storie sembrano offrire una versione più positiva dell’antico potere femminile. La commedia di Aristofane Lisistrata, scritta nel V secolo a.C., sembra una miscela perfetta di spirito classico, fiero femminismo e antimilitarismo, con una buona dose di oscenità. È la storia di uno sciopero del sesso nell’Atene di quei tempi. Sotto la guida di Lisistrata le donne cercano di costringere i mariti a terminare la lunga guerra con Sparta rifiutandosi di andare a letto con loro finché non cesseranno le ostilità. Per gran parte della commedia gli uomini vanno in giro con erezioni ingombranti. Alla fine, per mettere fine a questo disagio, cedono alle richieste delle donne e fanno la pace. Il potere femminile nella sua miglior forma, si potrebbe pensare. Anche Atena, la divinità che protegge la città, è spesso citata come esempio positivo: il fatto che fosse donna non suggerisce forse che l’immagine dell’influenza femminile fosse più sfumata? Temo di no.
Leggendo tra le righe e considerando il contesto del V secolo a.C., Lisistrata appare molto diversa. Nel rispetto delle convenzioni ateniesi dell’epoca, il pubblico e gli attori originali erano esclusivamente uomini e i personaggi femminili erano probabilmente interpretati come in una pantomima. Inoltre, il potere femminile è illusorio. Nella scena finale del processo di pace una donna nuda (o un uomo mascherato come tale) è usata come mappa della Grecia e metaforicamente suddivisa, in modo sgradevolmente pornografico, tra gli uomini di Atene e quelli di Sparta. Non c’è un’ombra di protofemminismo.
Quanto ad Atena, nel mondo antico non era considerata una donna a tutti gli effetti, ma un altro difficile ibrido. Tanto per cominciare, è vestita da guerriero e combattere era una faccenda esclusivamente maschile (questo è il problema di fondo anche con le amazzoni). Inoltre è vergine, mentre la ragion d’essere del sesso femminile nell’antichità era procreare nuovi cittadini. Non era neppure nata da una donna, ma direttamente dalla testa di suo padre Zeus. La figura di Atena lasciava intravedere un ideale mondo maschile dove non solo era possibile tenere le donne al loro posto, ma se ne poteva fare a meno. Il punto è semplice ma importante: se torniamo agli albori della storia occidentale troviamo una separazione radicale – reale, culturale e immaginaria – tra donne e potere. Un elemento del costume di Atena, però, la riporta dritto ai nostri giorni: nella maggior parte delle immagini della dea, proprio al centro dell’armatura, fissata al pettorale, c’è l’immagine di una testa femminile con i serpenti al posto dei capelli. È la testa di Medusa, una delle tre mitiche sorelle note come le Gorgoni e uno dei più potenti simboli antichi della superiorità maschile rispetto ai pericoli del potere femminile. Non è un caso se la troviamo decapitata e la sua testa è orgogliosamente esibita come un accessorio da una divinità molto poco femminile.
Simbolo culturale
Ci sono molte varianti della storia di Medusa. Secondo una versione era una donna molto bella che fu violentata da Poseidone in un tempio dedicato ad Atena. La dea la tramutò immediatamente, come punizione per il sacrilegio, in una creatura mostruosa capace di trasformare in pietra chiunque la guardasse in volto. In seguito la missione di uccidere questa donna fu affidata all’eroe Perseo, che le tagliò la testa usando il suo scudo come uno specchio per evitare di guardarla direttamente. Inizialmente Perseo usò la testa come arma, perché aveva conservato la capacità di pietrificare. Poi la donò ad Atena, che la sfoggiò sulla sua corazza.
Non c’è bisogno di Freud per interpretare i ricci serpentini di Medusa come un’implicita rivendicazione del potere fallico. È il classico mito in cui il dominio maschile viene riaffermato con violenza contro il potere illegittimo della donna. La letteratura, la cultura e l’arte dell’Occidente lo hanno ripetutamente ripreso in questi termini. La testa sanguinante di Medusa è un’immagine che ritorna nei capolavori dell’arte occidentale. Nel 1598 Caravaggio realizzò una versione della testa decapitata con la sua faccia. Alcuni decenni prima, Benvenuto Cellini aveva scolpito una grande statua bronzea di Perseo che si trova ancora oggi in Piazza della Signoria a Firenze: l’eroe calpesta il corpo di Medusa e ne solleva in aria la testa, da cui sgorga il sangue.
La decapitazione rimane ancora oggi un simbolo culturale di opposizione al potere delle donne. Il volto di Angela Merkel è stato più volte sovrapposto al ritratto di Caravaggio. In un articolo di commento uscito sulla rivista della federazione di polizia del Regno Unito, Theresa May, all’epoca ministra dell’Interno, fu definita “la Medusa di Maidenhead”, dal nome del suo collegio elettorale. “Il paragone con Medusa potrebbe essere un po’ forte”, commentò il Daily Express. “Sappiamo tutti che May ha sempre i capelli perfettamente in ordine”. A May comunque è andata meglio che a Dilma Rousseff, che quand’era ancora presidente del Brasile ha dovuto inaugurare una mostra di Caravaggio a São Paulo. Quello della Medusa ovviamente era tra i quadri in esposizione, e tutti i fotografi non si sono lasciati sfuggire l’occasione di ritrarre Rousseff davanti al dipinto.
Con Hillary Clinton il tema di Medusa ha assunto la sua forma più cruda e ripugnante. Com’era prevedibile, i sostenitori di Trump hanno pubblicato un gran numero di immagini di Clinton con una testa di ricci serpentini. Ma la più brutta e memorabile riprende il bronzo di Cellini: il volto di Trump è sovrapposto a quello di Perseo e i lineamenti di Clinton sono sovrapposti alla testa mozzata. È vero che sul Web si possono trovare immagini molto sgradevoli anche di Barack Obama, ma sono in pagine abbastanza nascoste. Invece l’immagine di Perseo-Trump che brandisce la testa di Medusa-Clinton è stata riprodotta su oggetti d’uso quotidiano come magliette, tazze, custodie per il pc e borse per la spesa. Questa normalizzazione della violenza di genere spazza via ogni dubbio su quanto sia culturalmente radicata l’esclusione delle donne dal potere e sull’efficacia dell’immaginario classico per esprimerla e giustificarla.
Cosa bisogna fare per ricollocare le donne all’interno della sfera del potere? In questo caso occorre distinguere tra la prospettiva individuale e quella più generale. Se osserviamo alcune donne che “ce l’hanno fatta”, possiamo constatare che la strategia dietro il loro successo non si riduce a scimmiottare gli atteggiamenti maschili. Molte di queste donne hanno saputo sfruttare a loro vantaggio proprio quei simboli che di solito le indeboliscono. Margaret Thatcher lo faceva con le borsette: dopo di lei lo stereotipo per eccellenza degli accessori femminili è diventato in inglese un verbo che esprime potere politico, to handbag (prendere a borsettate). Quanto a Theresa May, c’è la possibilità che finiremo con il considerarla una donna che è stata messa in un posto di potere proprio perché fallisse. Ma il suo debole per le scarpe e i tacchi bassi a spillo potrebbe essere visto come un tentativo di non omologarsi al modello maschile. È anche piuttosto brava, come lo era Thatcher, a sfruttare i punti deboli del tradizionale potere maschile tory. Non far parte di certi circoli esclusivamente maschili l’ha aiutata a ritagliarsi un ruolo indipendente e da quest’esclusione ha guadagnato potere e libertà.
Molte donne potrebbero avvantaggiarsi di possibilità e stratagemmi simili. Ma le grandi questioni che vorrei affrontare non si risolvono tollerando lo status quo. E non credo che avere pazienza possa essere una scelta, anche se probabilmente i cambiamenti saranno graduali. Se consideriamo che le donne britanniche hanno il diritto di votare da appena un secolo, dovremmo congratularci per la rivoluzione che è avvenuta da allora. Ma se le strutture culturali profonde che legittimano l’esclusione delle donne sono quelle che ho descritto, un approccio graduale richiederà troppo tempo. Dovremmo riflettere invece su cosa è il potere, e a cosa serve. In altre parole, se nella nostra percezione le donne non trovano pienamente posto all’interno delle strutture del potere, forse è il potere che ha bisogno di essere ridefinito, non le donne.
Finora ho preso come riferimento l’immagine del potere che abbiamo abitualmente: quello dei politici, degli amministratori delegati, dei giornalisti importanti, dei dirigenti televisivi e così via. Ma è una definizione ristretta di potere, che ha a che vedere con il prestigio e la notorietà. È una concezione molto tradizionale del potere, come qualcosa di esclusivo che, se combinato all’idea del “soffitto di cristallo”, non solo lascia fuori le donne dalla sfera del potere, ma considera le pioniere del potere femminile come delle superdonne di successo che devono solo superare qualche pregiudizio maschile. Questo modello, temo, non si adatta a gran parte delle donne che, anche senza aspirare a diventare presidenti degli Stati Uniti o manager di grandi aziende, vogliono rivendicare il potere.
E se restringiamo l’analisi al campo della politica, il modo in cui definiamo il successo delle donne rimane scivoloso. Ci sono molte classifiche sulla presenza femminile nei parlamenti degli Stati. Al primo posto c’è il Ruanda, che ha un’assemblea legislativa formata per più del 60 per cento da donne, mentre il Regno Unito è intorno al cinquantesimo posto, con il 30 per cento circa di deputate. Può sembrare strano ma il consiglio consultivo dell’Arabia Saudita ha una proporzione di donne superiore a quella del congresso degli Stati Uniti. Di fronte a questi dati è facile lamentarsi per alcune situazioni o rallegrarsi per altre, come quella del Ruanda. Ma mi chiedo se, in alcuni casi, una forte presenza femminile in Parlamento non significhi solo che non è lì che si esercita il potere.
Inoltre, bisognerebbe interrogarsi con onestà sui motivi per cui vogliamo più donne in Parlamento. Molti studi sottolineano il ruolo delle parlamentari nel promuovere leggi nell’interesse delle donne (sull’assistenza all’infanzia, per esempio, sulla parità di retribuzione e sulla violenza familiare). Un recente rapporto della Fawcett Society, un’organizzazione per i diritti delle donne, suggerisce una relazione tra il rapporto di parità tra gli uomini e le donne nel Parlamento gallese e il numero di volte in cui in quella sede sono state sollevate “questioni femminili”. Ma non sono certa che l’assistenza all’infanzia e altri temi debbano continuare a essere percepiti come “questioni femminili”. E non è questa la ragione per cui dovremmo volere più donne in Parlamento.
Oltre il carisma
Le ragioni sono più elementari: perché è ingiusto escludere le donne e non possiamo permetterci di fare a meno della loro esperienza e competenza, che si tratti di tecnologia, economia o assistenza sociale. Se questo significa che entreranno meno uomini in Parlamento, come dev’essere (il cambiamento sociale ha sempre i suoi perdenti), sarò ben contenta di parlargli con franchezza.
Ma questo significa ancora considerare il potere come una questione elitaria, abbinata al prestigio, al carisma individuale della cosiddetta leadership, e spesso, anche se non sempre, a un certo grado di celebrità. Significa anche considerare il potere in un’accezione ristretta, come qualcosa che solo pochi – per lo più uomini – possono esercitare. Da un potere così, le donne in quanto genere – non come singoli individui – sono escluse per definizione. Non è facile inserire le donne in una struttura che è già codificata come maschile. Bisogna cambiare la struttura. Questo significa concepire diversamente il potere: bisogna separarlo dall’idea di prestigio, ragionare in termini di collaborazione, pensare al potere della base e non solo dei leader. Significa vedere il potere come un attributo o perfino un verbo, non come qualcosa da possedere: il potere è la capacità di essere efficaci, di fare la differenza nel mondo, e il diritto di essere presi sul serio.
È il potere in quest’accezione che molte donne sentono di non avere. Perché il termine mansplaining (che indica l’atteggiamento paternalistico e condiscente che hanno spesso gli uomini quando spiegano qualcosa a una donna) ha avuto tanto successo, anche se a molti uomini non piace? Perché colpisce nel segno indicando cosa si prova a non essere presi sul serio.
Un bambino
Forse ci sono dei motivi per essere ottimisti. Uno dei movimenti politici più influenti degli ultimi anni, Black Lives Matter, è stato fondato negli Stati Uniti da tre donne. Pochi conoscono i loro nomi, ma insieme hanno avuto il potere di fare le cose in modo diverso. Non so se culturalmente in Occidente ci siamo avvicinati a sovvertire quelle storie fondative del potere che servono a tenere le donne a distanza e a capovolgerle a loro vantaggio, come fece Margaret Thatcher con la borsetta. Negli ultimi cinquant’anni il femminismo ha cercato in tutti i modi di rivendicare Medusa come una figura di potere femminile, ma non è servito a fermare gli attacchi alle donne che fanno politica.
Il potere di queste narrazioni tradizionali è reso bene, anche se con un certo fatalismo, da Perkins Gilman. Terra di lei ha un seguito in cui Vandyck decide di riaccompagnare a casa Terry negli Stati Uniti, portando con sé sua moglie Ellador. La donna si ritrova nel bel mezzo della prima guerra mondiale. E ben presto la coppia decide di tornare indietro. Vandyck ed Ellador aspettano un bambino, e il romanzo si conclude con queste parole: “Allo scadere del tempo nacque il nostro bambino”. Perkins Gilman sapeva bene che non aveva bisogno di un altro seguito. Qualunque lettore sintonizzato con la logica della tradizione occidentale sarebbe stato in grado di prevedere chi avrebbe comandato nella Terra di lei cinquant’anni dopo: quel bambino.