di Sofia Ventura (linkiesta.it, 16 ottobre 2019)
In origine furono i dibattiti tra i candidati presidenziali: Kennedy versus Nixon nel 1960 il primo, rimasto memorabile. Nel 1984 un magistrale Reagan ebbe la meglio su Mondale. Nell’ultimo dibattito tra Trump e Hillary Clinton, il primo mise in scena tutta la sua “originale” teatralità. La sinistra che non ha il “monopolio del cuore” è passata alla storia grazie all’aristocratico Valéry Giscard d’Estaing confrontato al Mitterrand che per la seconda volta, nel 1974, tentava l’arrembaggio all’Eliseo.Sino alla studiata calma olimpica di Nicolas Sarkozy di fronte alla prima candidata donna alla presidenza francese, Ségolène Royal, e alla magra figura di Marine Le Pen di fronte al maestrino Macron. Anche a casa nostra non ci siamo fatti mancare qualche dibattito degno di nota, in particolare quelli tra i tra “candidati premier” – in un sistema che faticosamente voleva farsi maggioritario – Berlusconi e Prodi.
Ieri sera abbiamo visto a Porta a Porta un dibattito tra il leader di un nuovo piccolo partito, Matteo Renzi, e un ex ministro alla guida di un partito del 30% appena rimandato all’opposizione prima di tutto dalla sua tracotanza e dalla sua avventatezza, Matteo Salvini. Qual è l’occasione di questo dibattito? Nessuna. Ma proprio il fatto che si sia tenuto ci dice tanto della trasformazione “ontologica” della politica. La comunicazione non serve più a comunicare un messaggio politico. E questo è noto. Ma nemmeno possiamo dire che la politica venga costruita in funzione della sua comunicabilità. Perché in questo caso una dialettica tra il fare politica e il comunicare esisterebbe ancora. Siamo oltre: la politica è la stessa comunicazione. L’identità è totale. Fare politica significa costruire dei plot attraenti. Punto. A che scopo? Essere popolari, piacere, divertire, affascinare e perciò attrarre consenso. Certo, il consenso poi può servire per ottenere il potere e fare delle cose. O no? In parte, come conseguenza collaterale. Perché le cose che si faranno saranno a loro volta finalizzate a mantenere e consolidare la propria popolarità. E quindi forgiate dalle condizioni che consentono di perseguire questo scopo. E, soprattutto, lo scopo sommo: non cadere mai dal palcoscenico. Per fare questo qualunque strada, o viuzza, può essere intrapresa.
Si potrebbe osservare che non tutte le dinamiche della politica sono riconducibili a questo scenario. È vero. Ma è altrettanto vero che esso è dominante. Diversi protagonisti della politica operano secondo quelle logiche, e quanto più hanno successo tanto più la politica ridotta a pura comunicazione erode la politica vera e propria. Come nel caso dei due Mattei e della loro insensata performance a Porta a Porta.
La moneta cattiva scaccia quella buona. La moneta cattiva è la politica fusa nella logica mediatica. Perché è quella logica che ha innescato il meccanismo perverso. La politica che a forza di rappresentarsi secondo i format mediatici diventa essa stessa un format, un susseguirsi di format, di sitcom, di serial, di soap opera, di reality, di contest. E un flash di questo fluire senza soluzione di continuità di fiction e reality show è stato questo “duello”, come definito nella trasmissione di Bruno Vespa, con i duellanti rappresentati come schermidori. Il caro, vecchio frame del duello. E chi meglio dei due Mattei poteva metterlo in scena?
Nessuna reale occasione, si diceva. Nessun presidente da eleggere, nessun candidato da scegliere, nessun premier da incoronare. Tanto più che il sistema, ormai, non lo consente… Quella prima forma di politica mediatizzata, il confronto televisivo tra candidati, passo dopo passo è divenuta un semplice format senza una sostanza che gli fornisca ragione politica. Nessuna reale occasione, ma la finzione che la politica ruoti attorno ai due ego-Mattei. Non è così? Facciamo finta che sia così perché mediaticamente funziona. Il bipolarismo non esiste più, ma inventiamocene uno, per la felicità di stampa e tv, il diletto dei fan, le aspirazioni dei leader-attori. I Mattei sanno di essere personaggi da reality show. Il guanto lanciato, la sfida accolta, lo scontro tra Ego. Gli operatori dei media ritengono che questo ancora funzioni. Il guanto lanciato e la sfida accolta, il prologo del successivo teatrino che serve a entrambi i contendenti per guadagnare di nuovo il centro del palcoscenico. Così, ancor prima che la trasmissione registrata vada in onda, giochicchiano su Twitter a chi è stato il più bravo. Si preoccupano anche dei promo! E chiedono al pubblico social: «Specchio, specchio delle mie brame, chi è il più bravo del reame? Mi raccomando, guardami e poi incensami». E durante la trasmissione twittano i loro pensierini fondamentali, mentre i siti dei giornali pubblicano pillole e commenti dell’incontro. L’evento ha un valore in sé, in quanto evento.
Il contenuto è noiosissimo. Tutto già sentito, anche espresso con le medesime frasi troppe volte ascoltate. Tutto dentro alla micropolitica contingente della quale i due sono protagonisti. Tutto concentrato su Matteo e Matteo. Io, io, io sono stato bravo, io sono diverso, io non sono come te. Tu, tu, tu non hai fatto, ti sei contraddetto, sei questo, sei quello. Bon-ton, frecciate, rivendicazioni, un po’ di tensioni. Ora partiranno le valutazioni su chi è stato più bravo, più efficace, più convincente. Ma bravi, efficaci, convincenti per fare che? A cosa sono candidati? Ci sono elezioni? No, c’è la campagna permanente. Nella campagna permanente del frullato della politica trasformata in puro show si possono anche inventare i competitors, i “concorrenti”. I concorrenti possono provare a convincere che il plot inscenato corrisponde alla realtà. E convincere i media oggi non è molto difficile se si fornisce loro una storia carina. Non ci resta che sperare nel pubblico. Perché quando è ripetuto cento, mille volte, lo spettacolo può stancare, diventare insulso e noioso. E far preferire l’ennesima replica de L’ispettore Barnaby.