Come Lana Del Rey si è trasformata da bambola a stelle e strisce in icona femminista

di Laura Caprino (vice.com, 11 settembre 2019)

La prima volta in cui ho ascoltato Lana Del Rey avevo da poco superato i vent’anni. Il suo album di debutto omonimo non si era fatto particolarmente notare, ma Born to Die aveva conquistato prepotentemente la scena musicale, piazzandosi da subito ai piani alti delle classifiche in Uk e Usa. Nonostante fosse sconosciuta ai più, con il suo secondo disco irruppe in classifica con un sound e un’estetica unici, ispirati alla vecchia Hollywood decadente e viziosa, dal volto oscuro e dal passato tormentato.LanaDelReyQuando veste i panni di Lana Del Rey, infatti, Elizabeth Grant diventa una diva non convenzionale: perfettamente charmante nel ruolo di femme fatale, ma anacronisticamente opposta ai codici di abbigliamento, espressione e composizione delle regine del pop internazionale. Come resistere a un’artista che si autodetermina come icona a prima vista? Nel suo malinconico vortice di sensualità crepuscolare, Lana Del Rey ha messo a segno un tiro da tre punti proponendo qualcosa di completamente diverso rispetto all’offerta di quel momento: una produzione romantica, onirica e lacerante, sullo sfondo della vastità di confini e opportunità dell’immaginario americano. L’America è la conchiglia che genera botticellianamente questa Venere del botox, madre sempre pronta ad accoglierla e matrigna compromessa da menzogne e contraddizioni. È il ritratto di un paesaggio intrigante, ma desolato e desertico: chilometri di highway e canyon bruciati dal Sole, in cui le uniche figure umane a parte Lana sono maschili e stereotipate in motociclisti aridi e ubriachi al banco di un bar con distributore di carburante annesso.

Sulle prime, Lana Del Rey è tanto macchiettisticamente americana che più di così c’è solo un poster della leva militare con lo zio Sam che dice “I Want You”. Dopo il 2016, il patriottismo americano ha preso delle tinte oscure e inquietanti; ma ai tempi, nell’immaginario mondiale, comunicava ancora una certa innocenza. La prima sequenza del video di Born to Die la vede protagonista, nuda e divina, davanti a un enorme vessillo a stelle e strisce, stessa bandiera di cui fa mantello indossando una maglietta dal logo Budweiser nel video di Ride. Intitola un pezzo come l’indumento simbolo dei cowboy, Blue Jeans. Il singolo Young and Beautiful viene incluso nella colonna sonora de Il Grande Gatsby, film tratto dal classico americano di Francis Scott Fitzgerald, il cui messaggio finale è, neanche a farlo apposta, l’amara presa di coscienza che il sogno americano, seppur luccicante e irresistibile, è impossibile da ottenere.

Lana racconta e si racconta nella terra in cui è cresciuta. Cavalca l’onda delle stelle e strisce come già altri prima di lei (Madonna nella fase Don’t Tell Me, Katy Perry) e ne fa un tema ricorrente. Raggiunta la maturità artistica e ottenuto un apprezzamento da parte della critica, tuttavia, continuare a portarsi dietro un bagaglio simbolico e iconografico del genere avrebbe rappresentato non più un esercizio ma una dichiarazione di intenti, una presa di posizione. Perché essere un’artista nell’America del 2019 vuol dire esserlo nel corso dell’amministrazione Trump, nell’era del #metoo e del dibattito morale acceso su ogni fronte della quotidianità; vuol dire assumersi la responsabilità delle proprie parole e dei propri atti pubblici, passati al vaglio dal giudizio collettivo via social media 24 ore su 24.

All’inizio Elizabeth è stata bombardata. C’era chi la aggrediva per il suo aspetto e chi la accusava di essere costruita a tavolino, incapace di cantare, prodotto di una squadra di stylist, produttori, musicisti ed esperti di marketing. Se nel 2012 poteva essere ancora acerba e non del tutto padrona della scena, incosciente della portata del proprio messaggio e del significato che avrebbe assunto a sette anni di distanza dal debutto, oggi il registro è completamente mutato. Nel corso degli anni, Lana ha dimostrato di non aver bisogno di essere manovrata e di essere bensì una donna matura e forte delle proprie doti di scrittura e performance. Un essere umano consapevole di essere nato di genere femminile, bianco e nei gloriosi Stati Uniti d’America, con i privilegi e, di pari passo, i doveri che questo comporta.

Si fa portavoce di un contro-pensiero concreto e sincero, abbandonando sul palco quella bandiera americana che era stata la sua coperta di Linus; tramite Twitter, raccoglie l’invito delle proprie fan a scagliare un sortilegio contro Trump; nel suo ultimo album, Norman Fucking Rockwell!, ironizza sulla deriva “Make America Great Again” di Kanye West nel singolo The Greatest e sulle dichiarazioni più o meno allucinate rilasciate dal rapper (“Kanye West è biondo e andato / Life on Mars non è solo una canzone”). Oltre a questo, si è messa più volte in discussione per aver annullato un concerto in Israele in sostegno alla causa palestinese, e per aver criticato l’opportunità e il buon gusto di organizzare il Coachella nonostante nello stesso weekend drammatici scontri stessero avvenendo in Corea del Nord.

Lana Del Rey ha eretto una carriera stellare su un immaginario patriarcale e nazionalista, conservatore e anti-femminista (il protagonista maschile del video di Blue Jeans è un insensibile James Dean stereotipato); oggi non potrebbe essere più estranea e a disagio rispetto a questa estetica. “Le cose sono cambiate. Durante gli anni di Obama, io e i miei conoscenti ci sentivamo al sicuro. Quando in cima alla piramide c’è un leader che fa casino e fa battute su robe simili, legittima persone che hanno già una propensione a essere violente nei confronti delle donne”, ha dichiarato a Pitchfork nel 2017. Pur essendosi mostrata quasi politicamente apatica prima di allora, col tempo Lana non ha soltanto compreso il potere sociale della propria musica ma la più generale e urgente rilevanza della politica nella vita sua e di chiunque la ascolti, trasponendo in nostalgiche ballate il senso di malessere comune a tutta una Nazione.

Se i temi sono cambiati, Elizabeth ha conservato il suono che è il suo marchio di fabbrica, fra violini accorati e tempi dilatati, in un’atmosfera in perenne declino verso l’abisso ma con una mano tesa in alto in cerca di un appiglio. Melodicamente non stupisce, ma mantiene la forza evocativa e magnetica a cui ci ha abituato. Come se L’assenzio di Degas fosse ambientato in un bar buio di Los Angeles: la solitudine regna sovrana nello sguardo, nella rassegnazione alle miserie degli anti-eroi, figure ai margini, dannate. Il suo canto addolcisce eventi (auto)distruttivi consumati fra le mura di una stanza d’hotel, menestrella dei sentimentalismi amari dei Nottambuli che Hopper vedeva illuminati dalla luce di un bar, più che da quella interiore.

Norman Fucking Rockwell! rappresenta lo zenit di scrittura e di sound di Lana, aiutata in questo caso dal guru del pop Jack Antonoff. Il Norman Rockwell del titolo è uno dei maggiori illustratori e portavoce dei diritti civili della storia americana, avendo disegnato per decenni sulle copertine del Saturday Evening Post scene tratte dal vissuto reale. Americani boy scout, americani dalle guance rosse di sana costituzione e fiducia negli ideali e valori della tradizione, americani dalla fede incrollabile anche davanti a tragedie sociali, guerre e devastazioni, in contrasto con la serenità della villetta nel cui giardino giocano a football con i figli. Lana prende atto dell’ipocrisia che la circonda e la rende paesaggio di sfondo per lei e i suoi personaggi. La mediocrità del singolo si concretizza nei suoi fallimenti e, sommandoli a uno a uno per ogni individuo, questi formano la generalità dell’insuccesso collettivo di una classe media rassegnata, disposta a lasciarsi violentare perché convinta di essere condannata.

Elizabeth è una cantante da night club edonista e autocelebrativa, appoggiata al microfono a cantare croci, delizie, sventure e perversioni, ma consapevole della propria miseria. Jessica Rabbit dalla forza demolitrice, nei confronti degli uomini vive un dualismo: li minimizza e li usa come passatempo (“Perché aspettare il meglio quando posso avere te?”, nella title-track) o li ritrae come eterni bambini viziati (“Maledizione, uomo-bambino” o, ancora, “‘Perché sei soltanto un uomo. È la tua natura”). Eppure allo stesso tempo li vede come dominatori cui si abbandona completamente, fino alla sottomissione psicologica (“Mi hai scopata così bene che ti ho quasi detto ti amo”). Emerge anche il suo complesso edipico nei rimandi a una figura maschile tormentata, ma adorata visceralmente, come un padre ingiusto di cui cerca l’approvazione (“Chiami dall’oltretomba, voglio solo dirti Ciao papà” in Hope is a Dangerous Thing). Lana è una “daddy’s girl” maliziosa e abbandonata, inconsolabilmente ferita e padrona della propria sessualità. Si vanta della propria indipendenza, ma allo stesso tempo cerca protezione.

L’America è ancora un tema presentissimo e a tinte forti, alcune ballate sembrano essere state scritte per venir suonate sul patio di una casa di campagna in mezzo al grano. C’è la sua California, terra promessa e teatro dell’inferno (“Mi sono trasferita in California / Il mio stile di vita mi sta uccidendo”, in Venice Bitch), in cui racconta l’uso di eroina e il cordone ombelicale che la lega a un luogo maledetto facendo ripensare a Anthony Kiedis che stava Under the Bridge vent’anni fa (“Sotto il ponte giù in città / Ho versato del sangue”). Eroina che ritorna nell’omaggio ai Sublime con la bellissima cover del successo Doin’ Time nel ricordo di Bradley Nowell, leader della band ska-dub di Long Beach scomparso per overdose all’età di ventotto anni.

Lana parla del dolore che nutre soprattutto per amore: questo è un disco che scoppia di amore, di emozione, di struggente romanticismo letterario (a un destinatario domanda “Be my once in a lifetime”, nella commovente Love Song). S’interroga se il suo modo di essere non la renda ancora più vulnerabile in un rapporto già antitetico con l’altro sesso, alimentato dalla necessità di farsi aiutare per sfuggire a un destino di completo abbandono e sofferenza (“Mi piacerebbe pensare che tu restassi con me / Sai che morirei per renderti orgoglioso”, ancora una volta assimilando la relazione con il genere maschile a quella paterna).

Al termine di un viaggio introspettivo fra acque tenebrose, Elizabeth conserva la speranza e chiude il cerchio con uno spiraglio di luce: “C’è una nuova rivoluzione, una forte evoluzione che ho visto”, dice in Hope is a dangerous thing for a woman like me to have – but I have it. L’ultimo brano del disco porta un titolo che, letto da solo, invita ad ascoltare immediatamente quella traccia prima delle altre, invertendo il flusso dell’album. E forse è una scelta consapevole quella di finire un percorso di oscurità con la redenzione o, guardandolo al contrario, di scendere in profondità tenendo bene a mente che la fede c’è, ancora, pur se malconcia e calpestata.

Definendosi una “Sylvia Plath 24 ore su 24” che scrive sui muri col sangue, Lana Del Rey sa chi era e non ne fa mistero (“Ci sono ancora dei mostri sotto il mio letto che non riuscirò mai a cacciare”), in una lucida analisi di quello che può e non può fare per sé e per gli altri. Si guarda dentro e dal catrame estirpa radici: è una bambina che sa di sbagliare, genuinamente innamorata della vita, che continua a guardare un mondo brutale con occhi innocenti. Gli stessi che hanno ammirato le illustrazioni di Norman Rockwell lasciandosi incantare da un sogno americano illustrato su carta a colori, prima di comprendere che questo nasconde, inevitabilmente, una delle molte bugie che gli adulti si raccontano per rendere l’esistenza più sopportabile.

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