Il poker, i bari e la comunicazione politica al tempo dei social

di Antonio Preiti (huffingtonpost.it, 5 agosto 2019)

Le fake news stanno ai social come i bari stanno al poker: al bando i bari, ma bisogna imparare il poker. La questione più intrigante è per quale maledetta ragione il poker proprio non lo si vuole imparare. Cominciamo dal poker, vediamo i bari e poi ci inoltriamo nel campo minato dell’impossibilità (asserita, non dimostrata) di giocare a poker.

Alexsl via Getty Images
Alexsl via Getty Images

Il poker è la nuova fisica sociale che ridisegna i comportamenti di ciascuno di noi, crea la psicologia collettiva e stravolge il modo in cui le idee politiche si affermano o declinano. Cominciando dai numeri, sempre essenziali. Chiunque si occupi di politica non può trascurare quello che fanno 33 milioni di italiani su Internet. Soprattutto non può trascurare i 28 milioni che ogni santo giorno dedicano la media di un’ora e 51 minuti a scrivere, leggere, postare e guardare foto, video e quant’altro viene in mente. Una quantità di tempo pazzesca!

La chiave di tutto è Facebook. Ancora numeri. Sono 25 milioni gli utenti attivi in Italia, cioè che leggono, scrivono e distribuiscono like ogni giorno che Dio manda in terra. Twitter è fermo a 2,5 milioni. Su Facebook la visita media dura 11 minuti. Chi sa di queste cose sa benissimo che trattenere per oltre 10 minuti una persona su un sito è un’impresa ardua, figuriamoci sulla lettura.

Anche se non sono ancora chiari i nessi causali tra uomo e Intelligenza Artificiale, l’intreccio è indistricabile; ad esempio: cerchiamo sul cellulare l’indirizzo del ristorante già scelto o lo scegliamo (solo) tra quelli proposti dall’app? Leggiamo una cosa perché siamo andati a cercarla o (solo) perché ci viene proposta più facilmente? Siamo dentro un flusso d’informazioni perché abbiamo scelto di esserlo, o siamo (solo) il target ideale dell’algoritmo perfetto?

Torniamo al digitale. La psiche di chi frequenta questo mondo ha due polarità: una è la scoperta (vado su Internet e comincio a cercare quello che non conosco e quello che mi induce curiosità); l’altra è il coinvolgimento (bisogno di trovare – o ritrovare – persone che siano capaci di coinvolgermi, di dare un senso alla mia quotidianità o qualche volta anche oltre la quotidianità). Il secondo gruppo è nettamente più grande del primo. Non ci sarebbe in verità neppure bisogno dell’algoritmo, perché il pubblico si autoseleziona da sé, e dà vita ai gruppi chiusi. A quel punto la tribù è fatta. In questi gruppi si parla un linguaggio confidenziale, come chiunque farebbe a casa sua con gli amici più stretti, dicendo anche l’indicibile. Siamo quello che siamo quando pensiamo che nessuno ci stia guardando (Christian Rudder, Dataclisma).

Questa è la fisiologia, ma le fake news? Bisognerebbe ripetere a memoria Kahneman (Pensieri, lenti e veloci) per capire davvero questo tema, a parte le responsabilità penali di chi divulga il falso. Perché c’è una zona grigia densissima in cui il falso non è letterale e palese, ma semplicemente ammiccante, o più spesso prende una parte per il tutto, cioè il significato di un aspetto per il significato del tutto. Il punto chiave è la verosimiglianza, la credibilità, o meglio la coerenza del messaggio con i propri pregiudizi. Ad esempio, il messaggio che ha avuto il maggiore successo nella campagna presidenziale americana è la foto di Trump con Papa Francesco, una semplice “foto opportunity”. La fake news diceva che il Papa aveva dato il suo “endorsement” contro Hillary Clinton. Notizia facile da verificare. Però la comunicazione subliminale (e talvolta esplicita) è stata: è ovvio che il Papa sostenga Trump, perché Hillary è abortista, c’è bisogno di verificare? Insomma vincono le fake che, in qualche modo, veicolano luoghi comuni (anche se falsi); però resta la domanda: come hanno fatto a diventare luoghi comuni?

Bisognerebbe giocare a poker molto bene non solo per respingere le fake, ma soprattutto per convincere le persone della bontà delle proprie tesi. Il principio sovrano della comunicazione sui social media è però il “peer-to-peer”, cioè la comunicazione tra pari. Non è il giornale: io scrivo, gli altri leggono; non è la tv: io appaio, gli altri vedono. Non è in sostanza una comunicazione da uno a molti, ma da a uno a uno. Ci vuole grande umiltà, perché i discorsi ex cathedra non suonano bene, perciò anche se io sono un luminare della scienza e chi mi risponde ha letto meno di un libro nella sua vita, devo avere la pazienza di convincerlo con gli argomenti. Devo trovare l’ago giusto che fa scoppiare la bolla auto-referente, quando la trovo. Devo capire che i social sono un mondo nuovo, com’era il cinema rispetto alla fotografia, la televisione rispetto alla radio. Ogni medium ha il suo linguaggio. E se è vero che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, non capire il linguaggio dei social impedisce di capire quel mondo.

Il demone si nasconde ancora da qualche altra parte, perché sembra che i sentimenti delle persone comuni non meritino attenzione; che un tema diventi degno solo se c’è una persona nota come protagonista (si veda il caso “metoo”); che l’ideologia (da affermare) sia più importante del vissuto delle persone. La bellezza del pensiero democratico è tutt’altra: sta proprio nel considerare il valore delle persone a prescindere dalla razza, dal sesso, ma anche dal livello d’istruzione e da qualunque gerarchia (Walt Whitman, Libertà: camminare liberi e non avere nessuno superiore). A pensarci bene anche la democrazia ha questo “difetto”: considera il voto di ciascuno uguale a quello di chiunque altro. Il poker è democrazia.

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