di Giorgio Gosetti (ansa.it, 17 agosto 2019)
C’è un concentrato impressionante di coincidenze, intuizioni e fatalità dietro la storia, ormai leggendaria, di Easy Rider, il film d’esordio di Dennis Hopper diventato titolo di culto fin dall’estate del 1969. Prodotto con due soldi da Peter Fonda, figlio d’arte che si ritagliò il ruolo del protagonista “Captain America” Wyatt al fianco del regista (Billy), arrivato nelle sale il 14 luglio di un anno che infiammava Europa e America nel segno della rivolta giovanile, a soli dieci giorni dalla Festa dell’Indipendenza americana, ma nel giorno della Rivoluzione Francese, portò nelle sale legioni di giovani grazie al passaparola della controcultura hippy, nonostante quella fosse un’estate torrida da Los Angeles a New York.Sei giorni dopo, il 20 luglio, il primo americano sbarcava sulla Luna e un mese dopo, il 15 agosto, Jimi Hendrix infiammava il popolo di Woodstock in uno dei concerti/raduni che hanno fatto la storia della gioventù ribelle. A ottobre se ne sarebbe andato Jack Kerouac il cui Sulla strada può a buon diritto essere citato come la Bibbia laica dei protagonisti di Easy Rider, da sempre riconosciuto come il film “on the road” per eccellenza. Non è automatico spiegarsi il folgorante e immediato successo di una pellicola indipendente e senza attori famosi, apparentemente sfilacciata e quasi senza trama (la sceneggiatura del resto veniva volutamente improvvisata giorno per giorno), con un finale atroce e senza speranza, riflesso di una generazione che andava forzatamente a combattere in Vietnam e in pochi anni aveva visto cadere icone popolari e giovanili pur nelle profonde diversità come John Kennedy, Malcolm X e Martin Luther King. Eppure il miracolo accadde e fu tanto sfolgorante da cambiare per sempre l’atteggiamento delle grandi major verso una nuova generazione di autori. La Nuova Hollywood dei Coppola, Altman, Scorsese, Cassavetes nasce proprio grazie a Easy Rider, come riconobbe uno dei “figli” di quel successo, George Lucas, che con le major avrebbe poi avuto un vero e proprio idillio nel segno del cinema “giovane”.
Del resto il mondo del cinema fu rapido a capire l’importanza dell’opera prima di Dennis Hopper: gli europei lo scoprirono con il premio per il migliore esordio al Festival di Cannes; gli americani con due nomination all’Oscar e poi una serie infinita di riconoscimenti che oggi gli valgono un posto nella “hall of fame” dei 100 film più importanti nella storia del cinema a stelle e strisce. Quelle stesse “stars and stripes” che figurano sul casco di Wyatt e ne fanno un novello “Captain America”, erede dell’ingenua ansia di libertà della creatura di Stan Lee, ingenuamente patriottico ma distante anni luce dalla grettezza retriva dell’America profonda. Quelle stesse stelle e strisce che bruciano con la bandiera americana alla fine del viaggio, sigillo di una tragedia con cui il regista seppelliva il sogno americano delle grandi praterie e di una nazione benigna e generosa.
In effetti se si ripercorre la trama di Easy Rider si scopre subito l’intento di Dennis Hopper: i due moderni cowboy che attraversano le sconfinate distese dell’Ovest e del Sud, dalla California a New Orleans, non sono certo santerellini (hanno comprato i loro leggendari “chopper” con un carico di cocaina importato dal Messico), ma sulla strada si imbattono nei veri mostri, portabandiera dei buoni sentimenti e dei probi comportamenti: poliziotti brutali, cittadini rancorosi e ubriaconi, autentici assassini protetti dall’anonimato. In alternativa ci sono solo un hippy inoffensivo e “fumato”, due allegre ragazze da bordello e un avvocaticchio figlio di papà (Jack Nicholson) che per poche ore assapora con i due “pards” il profumo della libertà e per questo morirà per primo. Easy Rider è una ballata triste in cui gli sterminati spazi della cavalcata ricordano il West di Sam Peckimpah e si contrappongono agli spazi angusti del Laureato di Mike Nichols (altra icona cinematografica del periodo), così come il timido Dustin Hoffman corrisponde allo sfrontato Peter Fonda.
Se Il laureato sdoganava il desiderio sessuale nel cinema americano, Easy Rider si libera dal pudore verso gli stupefacenti, marijuana in testa, anche se l’esperienza del trip con l’Lsd finirà drammaticamente per tutti. Segno che non è quella la via d’uscita e che forse alla fine del viaggio non c’è redenzione per un’intera civiltà che non sa più vivere nella libertà. Sono del resto i valori e le utopie che riecheggiano nella formidabile colonna sonora assemblata da Dennis Hopper con le canzoni che amava sentire e che hanno dato vita a una hit parade senza tempo, a cominciare da The Weight di Robbie Robertson, passando per It’s allright Ma di Bob Dylan, The Ballad of Easy Rider di Roger McGuinn e fino a Born to be Wild di Steppenwolf. Il suo ritornello risuona ancora ad accompagnare lo spirito del film: “Prendi la tua moto e vai, giù sull’autostrada cercando l’avventura in tutto ciò che ci viene incontro. Prendi il mondo in un abbraccio d’amore, spara con tutte le tue pistole in un solo colpo ed esplodi nello spazio”.
Nella nuova estate di Easy Rider il film risplende a nuova vita grazie all’accurato restauro digitale in 4K presentato al Festival di Cannes sul grande schermo della spiaggia e poi a Bologna, al festival del “Cinema ritrovato”. Varrà la pena di misurare se le utopie e i sogni affogati nel sangue di una gioventù di cinquant’anni fa mantengono ancora la forza ribelle e vitale che oggi servirebbe per diverse battaglie.