di Massimiliano Valerii (ilfoglio.it, 15 ottobre 2018)
Questa non è la storia di una character assassination, ma qualcosa di più: un grande cambiamento sociale. È il certificato di morte dello star system. Almeno per come lo avevamo conosciuto, popolato dai divi come figure simboliche – per quanto in carne e ossa – in cui potersi immedesimare.
In un rito collettivo ampiamente partecipato, il divismo forniva a tutti un ricco pantheon di idoli ed “eroi” al quale incardinare un congegno proiettivo. I divi moderni hanno incarnato la potenza del mito arcaico, interpretando laicamente il bisogno di fede del tempo presente, mettendo in moto lo slancio di identificazione di individui e interi gruppi sociali verso un modello di vita vagheggiato, una esistenza migliore e desiderabile, all’inseguimento di sogni e desideri necessari per emanciparsi dai vincoli prosaici della vita comune di un popolo che, nel suo insieme, di certo non è mai tutto composto da santi, eroi, poeti e navigatori. Ma nell’era biomediatica, in cui uno vale un divo, uno degli effetti della disintermediazione digitale è proprio la fine dello star system. Con la conseguente rottura del meccanismo di proiezione sociale che in passato veniva attivato dalla fascinazione esercitata dal tempio sacro delle celebrità: prima venerate e oggi smitizzate nel disincanto del mondo.
I consumi complessivi delle famiglie non sono ancora tornati ai livelli pre-crisi (-2,7% nel 2017 rispetto al 2007), ma la spesa per smartphone è più che triplicata nel decennio (+221,6%): 23,7 miliardi di euro per cellulari, servizi di telefonia e traffico dati – praticamente, una finanziaria. Otto italiani su dieci usano Internet, sette su dieci hanno in mano uno smartphone e altrettanti sono presenti su almeno un social network. I processi di disintermediazione digitale hanno finito per infragilire anche i tradizionali meccanismi di riconoscimento dei divi e di immedesimazione con essi, decretando la fine dello star system e di un modello proiettivo e aspirazionale, individuale e collettivo, che era stato a lungo determinante nelle dinamiche evolutive della società italiana. Il divismo aveva impregnato gran parte della cultura di massa del Novecento, legato al medium per eccellenza di quella cultura: il cinema, codificato dai grandi studios americani e dalle major nell’epoca d’oro di Hollywood. Un’“aristocrazia” di divi era prosperata sulla nascente cultura pop nella forma di un jet set nazionale e internazionale di personaggi venerati e inavvicinabili: star hollywoodiane, vedette del teatro e registi osannati dalla critica, stilisti glamour e cantanti lirici, toreador e mannequin, pugili e ciclisti, pittori e scrittori, playboy e viveur, prestigiosi capi di Stato e carismatici leader politici, muse incantevoli. Gli ambienti in cui si muovevano erano scintillanti e patinati: il tempio di Cinecittà e la mecca di via Veneto, le feste chic e memorabili tra Roma, New York e Parigi, le vacanze a Capri, a Cortina e in Costa Azzurra. I fan praticavano il culto delle grandi star celebrandone la fama: nasceva la cronaca rosa dei rotocalchi, i paparazzi e il fotogiornalismo, i ritratti dei grandi nomi dello spettacolo e della mondanità erano firmati da penne illustri del giornalismo.
È proprio con il cinema della prima metà del secolo scorso che gli interpreti dei film di successo vengono paragonati agli dei residenti nell’alto dell’Olimpo. Con la televisione gli dei scendono sulla terra, entrano nelle nostre case, diventano persone come noi: aumenta la loro popolarità a discapito della venerazione. Il passaggio conclusivo si ha con Internet e i social network, grazie ai quali la celebrità è talmente alla portata di tutti da essere banalizzata. Basta azzeccare il video autoprodotto da postare e si hanno migliaia, se non milioni, di contatti. Sono nati così nuovi vip, dagli youtuber agli influencer, che nella maggior parte dei casi si rivelano meteore piuttosto che stelle. E anche quelli che mantengono a lungo la loro popolarità amano presentarsi come persone comuni, piuttosto che esibire ville lussuose e jet privati. Si può essere famosi, ma non più divi. Si assiste, in altri termini, alla perdita di fascinazione di quelle figure che tradizionalmente avevano rappresentato i soggetti a cui ispirarsi, i modelli da imitare, i simboli in cui identificarsi: in una parola, i divi da celebrare. Oggi la moltitudine dei soggetti, novelli Prometeo dell’era digitale, li ha trascinati giù dall’Olimpo. Anzi, si assiste a un superamento rancoroso del modello dello star system. Alla “casta” del cinema, lontana e inarrivabile, si sostituiscono i selfie e i like sui social network: i nuovi atelier del successo. Il perpetuo casting personale di massa, autopromosso e autogestito attraverso i social network, rilancia défilé per tutti su Instagram. Uno vale un divo: siamo tutti divi. O nessuno, in realtà, lo è più. Secondo le rilevazioni del Censis, la metà degli italiani è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (e nel caso dei giovani under 30 la percentuale sale al 56 per cento). Un terzo ritiene che la popolarità sui social network sia “fondamentale” per essere una celebrità, al pari di talento e competenze. Mentre un quarto è consapevole del fatto che semplicemente il divismo non esiste più. E comunque appena un italiano su dieci oggi prende a modello i divi come miti a cui ispirarsi.
Le trasformazioni in corso nel sistema dei media producono quindi anche la perdita di suggestione delle tradizionali figure nei confronti delle quali si generavano processi di identificazione e imitazione. L’asse di progressione del cambiamento passa per la personalizzazione dei media e la disintermediazione digitale, include l’avversione anti-élite e anti-establishment, e finisce nella crisi dello star system. Sono le tracce di una grande mutazione. Non è l’ammirazione verso le persone famose che viene a mancare: è l’immedesimazione nei divi ad essere svanita, trasformando lo star system al massimo in una mera questione di box office. Gli unici ambienti in cui il divismo sembra preservare ancora uno spazio, soprattutto per i più giovani, sono legati agli eventi: il calcio e il mondo della musica (grazie a YouTube), e più in generale i personaggi che ruotano attorno ai social network (e qui gioca un ruolo decisivo Instagram). Verrebbe da pensare che l’unico vero divo della nostra epoca sia proprio Internet. L’effetto della fine dello star system è la rottura di quel fisiologico meccanismo sociale di tipo proiettivo, aspirazionale e imitativo, che in passato risultava utile e vitale nella società che cresceva. Ma se si accorcia l’arco proiettivo verso i divi, grazie ai media digitali prende forma un nuovo frame pre-politico che alla fine sviluppa il senso comune dentro il sistema pulviscolare degli account personali dei social network. Questa è la fondamentale trasformazione che lo star system ha conosciuto passando dall’era della celluloide all’epoca della disintermediazione digitale. Non sono i personaggi famosi ad indicare, in quanto divi, orizzonti di vita alle persone comuni, che permettano a chi li imita di elevarsi a un livello sociale ed economico superiore. Sono le celebrità a trasformare in spettacolo la visione del mondo del loro pubblico. È in questa dialettica tra seduzione e tradimento che il divo finisce per scomparire. E una parte di quella che una volta si sarebbe detta l’élite politica lo ha capito benissimo. E molto prima degli altri.