Salvini e Di Maio, i tronisti del populismo

di Andrea Minuz (ilfoglio.it, 24 settembre 2018)

«Sono un sequestratore, sono un truffatore, sono un fascista», dice Matteo Salvini ospite da Barbara D’Urso, subito sommerso da risate e applausi. Ricomincia la stagione televisiva, ripartono i talk, si srotolano i tappeti rossi per i fustigatori delle élite sopraggiunti nel frattempo al governo, ma che importa, sempre “amici del popolo” sono.DiMaio-FlorisUn’ovazione lo accoglie all’ingresso dello studio di Domenica Live. Una standing ovation che fa subito venire in mente i funerali di Genova e le variopinte manifestazioni d’affetto su e giù per l’Italia vacanziera. Agitatissime le signore: balzano in piedi, battono le mani, urlano in coro: “Ma-tte-o, Ma-tte-o”. Lui si gira, saluta, fa l’inchino. C’è affetto, consenso, fiducia, forse frenesia sessuale, chissà. Più che un ministro o un leader dell’internazionale sovranista, Salvini entra in studio come un tronista, come un idolo del pubblico della factory D’Urso-Maria De Filippi. A Domenica Live, poi, c’è aria di ritorno a casa. Salvini come a un pranzo della domenica con le nonne e le zie: allora Matteo che combini? Come va? Quand’è che ti sposi l’Elisa? Da questo salotto, come si ricorderà, doveva partire l’impeachment contro Mattarella, oggi potrebbe decidersi un’invasione del Lussemburgo. Essere al governo non ha cambiato il protocollo televisivo della scorsa stagione, anche perché nessuno ha la percezione che Salvini vada in tv come ci andavano Alfano o Minniti, cioè da ministro degli Interni, cioè a rendere conto di cose fatte o da fare o numeri o prospettive o flat-tax. Salvini in tv ci va da premier, leader dell’opposizione, padre di famiglia, padre della patria, leader della Lega, compagno di Elisa Isoardi, vigilantes, guardia costiera, vendicatore delle élite, giustiziere dei migranti clandestini ma soprattutto ci va da italiano. L’intervista di domenica scorsa (16 settembre, N.d.R.) nel salotto di Barbara D’Urso dovrà essere mandata a memoria, conservata in un archivio e rivista tra una quarantina d’anni per mettere i posteri nelle condizioni di capirci qualcosa. Lei in abito bianco etno-chic, un po’ “Coachella Style” (omaggio alle nozze dei Ferragnez?), perfetto per scomparire nella lux-aeterna di Domenica Live e far risaltare uno stivaletto maculato, molto “rodeo-style”, molto “deep South” trumpiano, anche se sono italianissime scarpe “Casadei”. Lui in giacca e camicia bianca con un paio di sovranissimi calzini “Gallo” a righe in bella vista. Si capisce subito che l’intesa è perfetta. «Tu Matteo sei uno del popolo», spiega Barbara D’Urso, «ti ho visto spesso in spiaggia quest’estate, stai in mezzo alla gente». Il popolo va in spiaggia, le élite in barca, yacht o Ong. Salvini spiega «la legittima difesa» come la spiegherebbe durante una tombolata in Brianza. Qui c’è anzitutto il «sacrosanto diritto» di difendersi in casa propria: «Se mi trovo in casa una persona armata e mascherata alle tre di notte non sta a me capire se ha un’arma finta, ho il diritto di difendermi senza se e senza ma», perché «a casa degli italiani vige la legittima difesa». Ovazione da stadio. Salvini allora fa le gag: dice «mi scusi signor rapinatore, posso difendermi?»; sembra Renato Pozzetto, in studio si ride a crepapelle. Si capisce che si è sintonizzato sul target del programma perché non vede l’ora di tirare fuori la «battaglia per Nonna Peppina», prima sfrattata, poi tornata finalmente a casa sua, uno dei successi, comunque la si pensi, di questo governo. Salvini è un fiume inarrestabile, interrotto solo dagli applausi e dalle sponde a forma di domanda che gli dà Barbara D’Urso. «Mi sono arrabbiato e mi arrabbio ogni volta che persone come queste», dice Salvini parlando del ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn, «paragonano i nostri nonni che sono emigrati per andare a lavorare con i clandestini che spacciano, fanno casino… è un ignorante». Boato come a un goal dell’Italia ai Mondiali. Il Lussemburgo è vicino al Belgio, non c’è neanche bisogno di giocarsi gli italiani in miniera per aizzare il pubblico. Questa cosa dell’operosità degli immigrati italiani sarebbe quantomeno un terreno un po’ scivoloso e delicato perché al mondo abbiamo dato Frank Capra ma anche Al Capone, però che importa, entrambi hanno dimostrato tenacia, creatività, talento; la mafia era una roba complessa da mettere su, mica come questi negher che bivaccano, spacciano, stuprano.

Quando Salvini è ospite dalla D’Urso si capisce ancora meglio su quale modello si è costruito il suo consenso, almeno quello televisivo. Salvini è un bad boy all’italiana come Fabrizio Corona, anche lui in occasione della sua prima uscita televisiva a Verissimo dopo «due anni di silenzio», accolto da un medesimo, isterico bagno di folla: abbracci, urla, strette di mano, selfie. «Se Salvini può fare il ministro dell’Interno», ha detto una volta Corona, «io posso diventare ministro della Giustizia». Ovviamente tra i due non corre buon sangue. Com’è facile intuire, non si sopportano. Però Corona e Salvini andrebbero analizzati insieme, due variazioni sul tema del bad boy italiano che sotto sotto piace alle mamme. Due tronisti. Corona è la dilatazione anarcoide, narcisista, sfrenata di Salvini; entrambi corteggiano il lato oscuro del loro pubblico, un pubblico che per Corona (come per il Salvini televisivo) è fatto soprattutto di donne, soprattutto signore, cui con i social si aggiungono tanti adolescenti in cerca di un duro o un cattivo. Salvini e Corona come due “ragazzacci” che fanno leva sulla nostra segreta ammirazione per i cattivi, che poi in fondo così cattivi forse non sono. «Non faccio le cose per stare sotto i riflettori», spiegava in quell’intervista fiume Fabrizio Corona, «io sono sotto i riflettori; la mia vita è uno storytelling di cui non parlano solo programmi, ma anche quotidiani, telegiornali, tutti. La mia è una storia particolare in un Paese particolare». Come ormai quella di Salvini: «Sono un sequestratore, sono un truffatore, sono un fascista» e le signore sdilinquiscono, come a dire “ma ti pare”? Siamo tutti fieri di questo ragazzaccio italiano. Sarà pure cattivo, ma chi se ne frega, ogni tanto ci vuole. Ospite da Floris, Michela Murgia dice che «questo Paese è senza un narratore», che «Salvini sta alla verità politica come Wanna Marchi alla verità farmacologica, che è un imbonitore», ma la verità politica non è esattamente quello che tiene in piedi i talk, né sposta i flussi elettorali. Qualcuno si potrà consolare con i dati Auditel: la prima di Domenica in con Mara Venier ha battuto Domenica Live con Salvini (che però ha battuto Di Maio da Floris). Mara Venier come leader dell’opposizione però è troppo, persino per un Pd orfano della cena a casa Calenda.

Dopo una stagione passata a trasformare in progetto di governo la rabbia degli italiani, la tv populista porta in trionfo le sue creature più promettenti, dunque spazio anche per Di Maio, ospite da Floris per l’esordio di Dimartedì. In questi cento giorni si è fatto pochino? Non importa, come dice Floris: «siete al top dei consensi». D’altro canto, «l’opportunità di queste interviste», spiega Di Maio «è raccontare come stiamo lavorando». Se lo dice da solo, casomai qualcuno non avesse capito; casomai qualcuno tirasse in ballo il “contraddittorio”. Dall’opposizione all’establishment, il mantra televisivo è sempre quello: Salvini e Di Maio sono qui come “emissari del popolo”, sono al governo per fare opposizione e dura lotta alla casta, sono l’esatto contrario del Pd: percepito come élite, governo e “Stato” nella sua più nefanda accezione, anche quando sta all’opposizione. «Vabbè ma questa è l’intervista che potevamo fare prima delle elezioni», dice giustamente a un certo punto Floris, ma Di Maio lo zittisce. Di Maio è a casa sua. Floris incalza: «Mi scusi ma di quanto sarà la manovra?». «Questa manovra nei prossimi giorni ne capirete la quantificazione», dice Di Maio, «dobbiamo fare la crescita economica», dobbiamo «risolvere i problemi delle persone, dobbiamo migliorare la qualità della vita degli italiani» (lo dice continuamente, un ritornello che abbraccia tutto e tutto spiega: finanza, Europa, fenomeni migratori, piccola impresa, occupazione, un po’ come quando aggancia «del Made in Italy» dietro a «Amazon» o «Netflix»). L’astrazione discorsiva di Di Maio è molto diversa da quella di Salvini, ma insieme funziona bene. Ospite da Barbara D’Urso, Salvini dice: «Io voglio dare un futuro in Italia ai bimbi che scappano dalla guerra, ma per quello che a Parma ha violentato una donna, un immigrato nordafricano irregolare, la pacchia è finita, per questa gente non c’è più posto». Applausi e boati. Questo è il cuore del metodo Salvini: lasciare sempre su un piano “universalistico”, dunque “vuoto”, i principi umanitari («dare un futuro ai bimbi») e offrire invece alla folla un volto, un nome, un luogo quando si tratta di accendere la rabbia, cioè di esaltare lo scarto tra istanze progressiste irraggiungibili e realtà quotidiana. Lo notava David Allegranti su questo giornale, nel suo reportage da Pisa che racconta l’avanzata dell’elettorato leghista in quella che era una roccaforte della sinistra-sinistra: «Il centrosinistra pisano ha realizzato grandi opere senza un legame diretto con i quartieri e con i problemi della popolazione, come il Pisa Mover che però ha difficoltà a essere operativo»; di fronte alla rabbia per le vetrate di una scuola che si rompono e non si riescono a riparare in tempi umani e lasciano i “bimbi” a fare ginnastica all’aperto, le grandi opere infrastrutturali sono impotenti o persino controproducenti, viste insomma come uno spreco di soldi pubblici. Così per Salvini: l’accoglienza è sempre un sostantivo astratto, l’“invasione” è nei fatti di cronaca. Le astrazioni di Di Maio pescano invece nelle più oscure circumnavigazioni del frasario parastatale, nei calembour dei verbali di condominio, nell’italianissima paura del parlar chiaro e semplice, andando da “A” a “C” passando per “B”. Così, dopo che Di Maio ha rispiegato per la terza volta a Floris che di «questa manovra nei prossimi giorni ne capirete la quantificazione» ma senza uno straccio di quantificazione, ci si butta sul nemico di sempre: «Quello che è certo», dice, «è che non avrete più sul groppone l’aereo di Renzi». La saga “caccia ai jet” continua. La lotta alle auto blu è un ricordo lontano, roba di quando eravamo ragazzi, ora si fa sul serio. Tutti a piedi come Fico, o sacco a pelo in spalla e Airbnb malandati, come il comandante Dibba in Guatemala. Se proprio aereo deve essere: classe economica, come Di Maio, che esibisce sui social il biglietto aereo per la Cina.

«Questa settimana la tv è degli uomini», titolava qualche giorno fa a tutta pagina DipiùTv. Cominciano Fazio, Giletti, Insinna, Alberto Angela. Dopo la settimana delle donne e gli scontri incrociati Palombelli-Gruber, Venier-D’Urso, il gioco si fa maschio. Forse per questo, ospite anche da Floris, Salvini dice che «con Di Maio siamo una coppia di fatto». Anche se ora il “ritorno a casa” e la possibile rinnovata intesa col Cav. fa paura a Di Maio e, in effetti, bastava vedersi Domenica Live per capirlo. «I rapporti personali con Berlusconi», diceva Salvini a Barbara D’Urso, «sono sempre stati buoni, perché ho un’enorme stima di lui, perché è stato un grande nella politica, nell’editoria, nella televisione, perché è stato il primo a spezzare il monopolio della Rai». Ma anche se Salvini e Di Maio dovessero litigare, per un po’ avranno ancora la televisione per continuare la loro saga, come un format, in barba a litigi e separazioni, come Al Bano e Romina. Sarà interessante vedere all’opera i talk nell’anno in cui il governo M5S-Lega sarebbe chiamato almeno in teoria alla prova dei fatti. Sarà interessante vedere il seguito della costruzione televisiva di Matteo Salvini e Luigi Di Maio che ora dovrebbe entrare per forza di cose nella sua fase adulta. Intanto, domani (domenica 23 settembre, N.d.R.) inizia Non è l’Arena: Massimo Giletti mette per il momento da parte i vitalizi e si gioca l’intervista in esclusiva mondiale a Jimmy Bennett, accusatore di Asia Argento, già trattata in apertura della puntata d’esordio di Domenica in, con gli opinionisti divisi in “pro” e “contro”, con Mughini, Roberta Bruzzone e Vera Gemma che diceva a Feltri «lei è un maleducato, ha detto cunnilingus in apertura di puntata». Si sono sfoderate tutte le pronunce possibili sin qui mai sentite di “Uèistììn” e si è chiuso con Mara Venier che diceva: «Mi raccomando donne, denunciare ma denunciare su-bi-to». L’effetto-nostalgia ha funzionato, però il modello di riferimento è ormai il trash di Barbara D’Urso. Se chiudono anche i negozi, saremo soli nelle sterminate domeniche sovraniste davanti la tv.

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