di Igiaba Scego (internazionale.it, 6 agosto 2015)
«Durante una trasmissione in tv a cui ho partecipato, è successo un fatterello». Così comincia un post su Facebook che Maryan Ismail, attivista politica italosomala, ha pubblicato pochi giorni fa. Il fatterello ha come scenario uno studio televisivo.Maryan, che fa politica attiva a Milano da molti anni, ha deciso di contrastare il razzismo parlando in ogni spazio pubblico, tv compresa. Naturalmente non parla solo di immigrazione, ogni causa importante la trova sulle barricate: dalla lotta contro il fondamentalismo (ha perso recentemente suo fratello in un attentato di Al Shabaab a Mogadiscio) fino alle questioni riguardanti la vivibilità urbana. «Però ho la pelle nera» dice Maryan, sottolineando che la lotta contro le discriminazioni è una delle voci importanti della sua missione politica. E spesso per attaccarla gli interlocutori, soprattutto in tv, usano proprio la sua pelle. «Un tipo di una certa età, molto sguaiato» scrive nel suo post Maryan «e in preda a un evidente travaso di bile, stava cercando di mettere insieme due parole sull’immigrazione e sui costi correlati. Preso in contropiede dalla mia reazione, ha cominciato a cantarmi in faccia Faccetta nera». L’episodio ha avuto come teatro gli studi del programma Forte e chiaro su Telelombardia ed è andato in diretta televisiva. «Inutile descrivere quello che è successo», prosegue Maryan. «Mi limito semplicemente a constatare con infinita amarezza che un altro limite è stato superato: si è arrivati allo sberleffo razzista spiattellato in faccia, senza ragione e senza pudore». Quando ho saputo la notizia il mio primo sentimento è stata l’indignazione unita alla solidarietà. Poi però mi sono detta che questo episodio non è solo etichettabile come razzismo. Lo è, ma è anche molto di più. Ci dice qualcosa di profondo e grave sulla società in cui viviamo. Ma cosa? Se sei donna e nera in Italia un riferimento, anche casuale, a Faccetta nera ci scappa sempre. Da piccola me la cantavano spesso all’uscita di scuola per umiliarmi, e in generale la canzoncina aleggia nell’aria come quei microbi da cui non ci si salva. Sono in tanti ad averla come suoneria del cellulare (ricordate Lele Mora in Videocracy?) e a considerare la canzone come la quintessenza più pura del fascismo. Ma anche chi non si professa apertamente fascista è sedotto da questa marcetta. Basta canticchiarla un po’ per vedere le braccia agitarsi a ritmo battente. Emblematica è la scena contenuta nel docufilm di Dagmawi Ymer Va’ pensiero, dove un gruppo di mamme canta la nota canzonetta a Mohamed Ba, mediatore culturale e attore senegalese. Ba ha appena lavorato in classe, proprio sugli stereotipi, con i figli di queste signore. Quando le sente cantare quasi non ci crede. È sconcertato e triste. Tenta di spiegare che Faccetta nera è una canzone del Ventennio, ma le signore non ascoltano, perse nel ritmo indiavolato dello zumpappà. Quella canzone gli piace, provano quasi un gusto trasgressivo nel cantarla e continuano imperterrite, incuranti di ferire i sentimenti di Ba. Ma chi la canta sa cosa significa? Sa da dove viene quella canzone? Com’è nata? Capisce tutti i riferimenti? Personalmente considero Faccetta nera un paradosso italiano. Ogni anno, quasi sempre d’estate o all’inizio dell’autunno, scoppia una polemica che la riguarda. O perché la cantano o perché qualche professore (di recente è successo con delle suore) la fa ascoltare in classe ai ragazzi. E giù fiumi di inchiostro che oscillano dall’aperta condanna all’ammiccamento solidale. E tutto si perde in un bla bla che spesso ci lascia indifferenti. Il video della canzone è disponibile in Rete in varie versioni e basta fare un giro turistico tra i commenti su YouTube per capire che chi la canta non sa la sua storia. Si sprecano infatti i vari «Orgoglioso di essere fascista» e «Viva il Duce». Ma queste persone sanno che Benito Mussolini odiava Faccetta nera? Aveva addirittura tentato di farla bandire. Per lui era troppo meticcia: inneggiava all’unione tra “razze” e questo non era concepibile nella sua Italia imperiale, che presto avrebbe varato le leggi razziali che toglievano diritti e vita a ebrei e africani. Oggi però, ed è qui il paradosso, il regime fascista è ricordato proprio attraverso questa canzone che detestava.
Ma facciamo un passo indietro. Faccetta nera, non molti lo sanno, nasce in dialetto, in romanesco. La scrive Renato Micheli per poterla portare nel 1935 al Festival della canzone romana. Il testo assorbe tutta la propaganda coloniale dell’epoca. Di Africa si parla tanto nei giornali e nei cinegiornali. Gli italiani sono bombardati letteralmente di immagini africane dalla mattina alla sera. I bambini nelle loro tenute balilla conoscono a menadito le città che il fascismo vuole conquistare. E così nomi come Makallè, Dire Daua, Addis Abeba diventano familiari a grandi e piccini. Il colonialismo italiano non nasce con il fascismo, ma con l’Italia liberale postunitaria, tuttavia negli anni Trenta del secolo scorso si assiste a un’accelerazione del progetto di conquista. Mussolini vuole l’Africa, il suo posto al Sole, e per ottenerlo deve conquistare gli italiani alla causa dell’impero. Dai giornali satirici come Il Travaso delle Idee al Corriere della Sera sono tutti mobilitati. Uno degli argomenti preferiti dalla propaganda era la schiavitù. I giornali erano pieni d’immagini di donne e uomini etiopi schiavi: «È il loro governo a ridurli così», spiegavano, «è il perfido negus, andiamo a liberarli». La guerra non viene quasi mai presentata agli italiani come una guerra di conquista, ma come una di liberazione. Il meccanismo non è molto diverso da quello a cui abbiamo assistito nel Novecento e a cui assistiamo ancora oggi. Andiamo a liberare i vietnamiti! Andiamo a liberare gli iracheni! Andiamo a liberare gli afgani! Per poi in realtà, lo sappiamo bene, sfruttare le loro terre. Faccetta nera nasce in quel contesto come una canzone di liberazione. Una canzone, nell’intenzione dell’autore, un po’ spiritosa che inneggiava a una sorta di “unione” tra italiani ed etiopi. Però, dal testo, si nota subito che l’italiano non vuole andare a liberare i maschi etiopi, bensì le donne (un po’ come è successo di recente in Afghanistan, dove si è partiti in guerra per liberare le donne dal burqa). E l’unione vuole farla con l’africana e solo con lei. Un’unione sessuale e carnale. D’altronde lo stereotipo circolava da un po’ nella Penisola. Il mito della Venere nera è precedente al fascismo. L’Africa è sempre stata vista dai colonizzatori (non solo dagli italiani) come una terra vergine da penetrare, letteralmente. O come diceva nel 1934 lo scrittore coloniale Mitrano Sani in Femina somala, riferendosi alla sua amante del Corno d’Africa: «Elo non è un essere, è una cosa […] che deve dare il suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale». Una terra disponibile, quindi. E questa disponibilità si traduceva spesso nel possesso fisico delle donne del posto, attraverso il concubinaggio, i matrimoni di comodo e spesso veri e propri stupri. Basta farsi un giro su Internet o al mercato di Porta Portese a Roma o in qualsiasi altro mercatino delle pulci per ritrovare le foto di questo sopruso. Di recente ne ho vista una nel libro di David Forgacs Margini d’Italia (Laterza), dove una donna eritrea viene tenuta ferma in posizione da “crocifissa” da alcuni marinai italiani sorridenti che probabilmente l’hanno stuprata o si stanno accingendo a farlo. Faccetta nera in questo senso è una canzone sessista, oltre che razzista. Una canzonetta che nasconde dietro la finzione della liberazione una violenza sessuale. Non a caso il suo testo a un certo punto dice: «La legge nostra è schiavitù d’amore». Temi che si ritrovano in altre canzonette dell’epoca, come Africanella o Pupetta mora. Ma anche nella più colta (e precedente) Aida di Verdi: anche lei, come “faccetta nera”, è schiava e solo diventare l’oggetto del desiderio di un uomo la può redimere dalla sua condizione. Faccetta nera, una volta scritta, non ha pace. Micheli non riesce a portarla al Festival della canzone romana. Viene musicata più tardi da Mario Ruccione e cantata da Carlo Buti, che la porterà al successo. La prima apparizione però è al teatro (oggi cinema) Quattro Fontane a Roma. Lì una giovane nera viene portata sul palco in catene e Anna Fougez, una diva della rivista di allora, pugliese con nome d’arte francese, avvolta da un Tricolore, la libera a colpi di spada. La canzone da quel momento in poi decolla. La cantano i legionari diretti in Africa per la guerra di Mussolini e diventa uno dei successi del Ventennio insieme a Giovinezza e Topolino va in Abissinia. Ma il testo iniziale di Micheli non piace al regime, che vi rimette mano più volte. Viene subito cancellato il riferimento alla battaglia di Adua. Per il regime era intollerabile ricordare quella disfatta italiana, che fu la prima battaglia vinta da un Paese africano contro l’imperialismo europeo. Saltò anche un’intera strofa che definiva “faccetta nera” «sorella a noi» e «bella italiana». Una nera, per il regime, non poteva essere italiana. Sottointendeva dei diritti di cittadinanza che il fascismo era lontano dal riconoscere agli africani conquistati. Diritti di cittadinanza che, per perfida ironia della Storia, latitano pure oggi. Nonostante i rimaneggiamenti, la canzone continua a non piacere al regime, ma è troppo popolare per poterne impedire la circolazione. Il fascismo provò a farla sparire e, in un goffo tentativo, si inventò una Faccetta bianca scritta e musicata dal duo Nicola Macedonio ed Eugenio Grio. Una canzone dove una ragazza saluta sul molo il fidanzato legionario in partenza per l’Africa. Una faccetta da focolare domestico, sottomessa e virginale: «Faccetta bianca quando ti lasciai / quel giorno al molo, là presso il vapore / e insieme ai legionari m’imbarcai, / l’occhio tuo nero mi svelò che il core / s’era commosso al par del core mio, / mentre la mano mi diceva l’addio!». Chiaramente il paragone non reggeva. Gli italiani erano attratti dalla disponibilità sessuale che l’altra canzone prometteva. La libertà e la rigenerazione del maschio attraverso l’abuso di un corpo nero passivo. Faccetta nera fu anche al centro di un’accusa di plagio. La faccenda finì persino in tribunale.
Ma questa canzone ci dice molto anche dell’Italia di oggi. Il corpo nero è ancora al centro della scena. Un corpo vilipeso, spesso presentato come fantasma e cadavere invisibile dei mari nei telegiornali della sera. Ma è anche un corpo desiderato, inafferrabile. Un corpo che vediamo nelle bustine dello zucchero e che ammicca da uno studio televisivo fasciato in una tutina in lattice nero. Un corpo usato e abusato. Un corpo che deve essere sempre bello. L’abissina non può essere altro che la bella abissina. Non può essere brutta, menomata, malata, non disponibile. Il suo corpo vive più paradossi. È da una parte desiderato, dall’altro oltraggiato, negato, imprigionato. Le faccette nere oggi in Italia non hanno solo la pelle nera: basta discostarsi da quello che la società considera “normale” per venire considerati facili, accessibili, stuprabili. Sei bissessuale, transessuale, sei punk, sei vintage, sei fuori dai codici? Allora il tuo corpo diventa di tutti. Corpo da liberare con lo stupro, con la sottomissione. Ed è forse in questo sottotesto la chiave del continuo successo di questa canzone. La società italiana si porta dietro vecchi retaggi maschilisti di cui non è riuscita a liberarsi, e di cui spesso non riesce nemmeno a parlare. E invece dovremmo parlarne, soprattutto a scuola. Discuto spesso dell’opportunità di far ascoltare ai ragazzi questa e altre canzoni fasciste. Sono sempre più convinta che solo lo studio approfondito del fascismo, con tutto il suo carico di miserie, stereotipi, propaganda e sessismo vada affrontato perché non si ripeta. Il pericolo vero è l’oblio. Attraverso una serrata analisi di Faccetta nera si potrebbe destrutturare il testo, decolonizzare le menti, defascistizzare la società, educare la nostra politica che ormai ha fatto dell’altro il capro espiatorio per eccellenza, lo sfogatoio di tutti i mali. Sarebbe davvero un grande passo in avanti riuscire a parlarne con serenità. Un passo in avanti per questa Italia che raramente affronta sé stessa.