di Carlo Cordasco (huffingtonpost.it, 13 luglio 2018)
Immaginiamo di andare dal cardiologo per una visita che fa seguito a qualche sintomo sospetto: dispnea e dolore toracico da sforzo. La diagnosi non è delle migliori: secondo il medico soffriamo di cardiopatia ischemica e, del resto, abbiamo parecchi dei fattori di rischio (sovrappeso, fumo e diabete). Il cardiologo ci propone di sottoporci a una coronarografia.Questo tipo di storie, solitamente, finiscono con il paziente che segue la terapia indicata dal medico. Eppure, stavolta, non siete persuasi. Non solo la diagnosi del medico non vi sembra adeguata, ma persino la cura non vi sembra faccia al caso vostro. Così, alla fine della visita decidete di indire un referendum sulla diagnosi e sulla terapia da seguire per liberarvi dei sintomi fastidiosi. Nella stanza, oltre il medico, che vota per confermare diagnosi e terapia, ci sono anche i vostri figli e vostra moglie. Loro, un po’ per solidarietà familiare, un po’ perché spinti dalle ricerche su Google, vi danno ragione: dispnea e dolori sono dovuti allo stress. Un riposo forzato di tre settimane alle Isole Eolie risolverà ogni problema. Il medico fa spallucce, vi fa firmare un consenso informato in cui dichiarate di rifiutare la terapia e siete pronti per il vostro mese di vacanza alle Eolie. Sembra un racconto di Kafka, eppure, che ci si creda o meno, persino la “compliance” del paziente con le direttive del medico è sempre più messa in discussione dal rifiuto del parere degli esperti di cui parla Tom Nichols in La conoscenza e i suoi nemici (Luiss University Press). Il rifiuto degli esperti può declinarsi in due forme. La prima è quella di sfiducia nell’esistenza di una competenza particolare; la seconda è basata sull’idea che certe decisioni non richiedano competenze particolari per essere prese. L’esempio del medico, spesso e volentieri, è un’istanza della prima forma. Da pazienti, infatti, assumiamo che esista una diagnosi corretta per i nostri sintomi, e che ci siano cure migliori di altre a disposizione. Quando rifiutiamo le direttive del medico non rifiutiamo l’importanza di possedere competenze particolari; semplicemente, riteniamo di essere più competenti di lui. Questa prima forma di rifiuto degli esperti è sempre più pervasiva e deve preoccuparci, ma è poco interessante nella misura in cui è dovuta a nostre errate valutazioni su chi ne sappia di più di un determinato argomento. Abbiamo euristiche sbagliate nell’individuare le competenze altrui o, più semplicemente, siamo presuntuosi. La seconda forma è differente. Non rifiutiamo l’idea che esistano competenze particolari su una determinata materia ma, piuttosto, l’idea che queste competenze debbano giocare un ruolo nelle nostre scelte. Questa attitudine non è necessariamente sbagliata. Ad esempio, quando vogliamo comprare un’opera d’arte ciò che normalmente guida la nostra scelta è l’emozione che un determinato oggetto suscita in noi piuttosto che il suo (più o meno oggettivo) valore artistico intrinseco. Farsi guidare da un’emozione non significa rifiutare l’esistenza di una competenza specifica in materia, ma attribuire a quella competenza un ruolo marginale nel guidare il nostro acquisto. Allo stesso modo, quando scegliamo di intraprendere una carriera, spesso lo facciamo in barba ai consigli degli esperti sulla probabilità di trovare lavoro. Non perché crediamo abbiano torto, ma perché siamo legittimamente guidati da altri criteri nel prendere la nostra decisione. Altre volte, invece, questa attitudine si rivela problematica. Questo accade quando le nostre decisioni riguardano fini non-opzionali. Ad esempio, dovremmo intervenire per aiutare un uomo che sta annegando, salvandogli la vita quando questo comporti costi piccoli o inesistenti per noi? Una larga maggioranza di filosofi morali direbbe che, in assenza di altre considerazioni, in questa situazione intervenire è un dovere morale. E se anche il criterio morale non fosse l’unico da tenere in considerazione nel prendere le nostre decisioni, certamente sarebbe assurdo relegarlo a un ruolo marginale, così come avviene per gli esempi precedenti. L’esistenza di doveri morali, inoltre, rende non-opzionali anche alcune decisioni sui mezzi, non solo sui fini. Ad esempio, un autista di un’autoambulanza che trasporta un infartuato ha il dovere di scegliere il tragitto più veloce per permettere di operare una coronarografia nel minor tempo possibile; non può scegliere la strada che costeggia il mare per godersi il panorama! I lettori troveranno queste considerazioni banali, eppure, quando votiamo e parliamo di politica, spesso e volentieri agiamo come se non giocassero ruolo alcuno. Questa è la tesi di Jason Brennan in Contro la democrazia (Luiss University Press). Brennan ci spiega che la nostra ignoranza o il nostro disinteresse nei confronti della politica, della filosofia politica e dell’economia sono del tutto fisiologici in ogni società complessa in cui i fini delle persone sono eterogenei e in cui aumenta la divisione del lavoro. Ciò che non è fisiologico è pensare che persone con poca conoscenza possano prendere decisioni sensate su questioni complesse. L’idea è una versione più articolata di quella di Platone: perché ascoltiamo il medico quando si tratta di diagnosticare e curare le malattie e non ci affidiamo agli esperti quando si tratta di votare? Non sarebbe meglio affidarci solo ad elettori (o eletti) competenti nello scegliere le nostre politiche pubbliche? Non sarebbe meglio il governo degli esperti? Qualcuno potrebbe obiettare che non tutte le decisioni politiche sono non-opzionali, che la migliore delle ragioni per sostenere il suffragio universale consiste proprio nel fatto che la democrazia stessa è un processo di scoperta dei fini che si affermano attraverso il voto. Questa obiezione, tuttavia, è vincente solo in parte. Perché se è vero che la teoria politica dovrebbe limitarsi a escludere modelli palesemente cattivi di ordine sociale, lasciando ampio spazio ai fini dei cittadini nel disegnare l’ordine politico, è anche vero che gran parte delle decisioni politiche a cui i cittadini sono chiamati sono decisioni sui mezzi e non sui fini. E anche quando mezzi e fini non sono non-opzionali, chiamare i cittadini a deliberare su questioni sulle quali siamo largamente e legittimamente ignoranti non ha alcun senso. Scegliere se alzare o abbassare le tasse, se rimanere o uscire dall’euro, se introdurre o meno un reddito di cittadinanza non è deliberare sui fini, ma su scelte pubbliche il cui impatto deve essere valutato in maniera tecnica. Noi cittadini abbiamo il diritto di esprimere una preferenza sul tipo di società giusta che abbiamo in mente; che sia una società in cui la distribuzione della ricchezza sia più eguale, o una in cui sia soprattutto il mercato a determinare la distribuzione delle risorse; che sia una società in cui si dia più importanza al diritto di parola piuttosto che alla tutela della reputazione della persona ecc. Ma, certamente, molti di noi non sono in grado di determinare l’impatto di specifiche politiche pubbliche nel raggiungimento del modello di società giusta che abbiamo in mente. Quando pretendiamo di dire la nostra su politiche pubbliche specifiche lo facciamo o perché riteniamo che i nostri esperti non siano poi così tanto esperti, o perché riteniamo che le loro considerazioni siano del tutto marginali, e che, trattandosi di politica, tutte le opinioni abbiano lo stesso peso. Eppure non è così. Le decisioni sui mezzi devono essere basate su fatti e non su opinioni, a meno che non sia la natura dei mezzi stessi a essere problematica. Insomma, come recita questo nuovo adagio: “Everyone is entitled to his own opinion, but not his own facts” (Tutti hanno diritto alla propria opinione, ma non ai propri fatti). In questo senso Brennan ha perfettamente ragione. E forse, uno dei motivi del crescente disamore verso la politica deriva proprio dal fatto che i partiti finiscono per parlare troppo di politiche pubbliche specifiche e troppo poco di modelli di società giusta. Insomma, si parla troppo di cose di cui i cittadini capiscono poco o nulla e troppo poco delle cose di cui dovremmo parlare. E questo continuo dibattito su politiche pubbliche ci ha resi tutti astiosi nei confronti degli esperti che snocciolano numeri e statistiche troppo lontani dalla vita delle persone normali. Nichols e Brennan scrivono due libri complementari. E sebbene Brennan tracci la strada giusta per uscire dal circolo vizioso di una democrazia incompetente, Nichols ci spiega perché questa strada non sia politicamente percorribile.