di Michele Smargiassi (blogautore.repubblica.it, 25 maggio 2018)
Bisogna tenere d’occhio il neo-presidente della Camera, Roberto Fico. Lo dico in senso buono, bisogna osservare con interesse quello che fa vedere. Ancora più interessante, per me, che ascoltare quello che dice. Per ora, soprattutto di gesti è stato generoso.Dalle passeggiate superscortate alle mani in tasca per alcuni istanti, mentre risuonava l’Inno di Mameli, durante la recente cerimonia a Palermo in memoria della strage mafiosa di Capaci. Entrambe cose molto visuali, e molto criticate. Non credo siano infortuni, né gaffe, come qualcuno dice. Credo che Fico, tutt’altro che ingenuo, sia tra i nuovi politici dell’ondata populista quello che più coscientemente e insistentemente sta sperimentando un rinnovamento della comunicazione non verbale della politica. E una deliberata produzione di immagini. Mi pare molto chiaro che il neopresidente della Camera stia cercando modi e gesti per distinguersi, anche e soprattutto visivamente, dal ceto politico che lo ha preceduto su quella augusta poltrona. Ed è un tentativo molto interessante, dal punto di vista della cultura visuale, perché ben pochi politici hanno saputo essere davvero innovatori in questo campo. Lo stesso Berlusconi, che della propria immagine ha fatto un potentissimo strumento di persuasione, in fondo non ha fatto altro che sfruttare un po’ di trucchi e stratagemmi presi integralmente in prestito dal repertorio del maquillage televisivo. Fico, invece, tenta di inventare da zero un linguaggio del corpo dell’antikasta, della contropolitica; un linguaggio del corpo, si potrebbe dire con espressione cara ai nuovi governanti, “scelto dal popolo”. Il suo problema è che non ci riesce. Anche volendo crederli benintenzionati (e io sono disposto a crederli tali), i suoi gesti che vorrebbero essere distintivi e alternativi rispetto al passato politico a cui la sua ideologia si contrappone gli si ritorcono contro, perché non sono gesti davvero nuovi, ma portano il peso di molti strati di significato che il presidente Fico non sembra in grado di gestire. Quelle mani in tasca, per esempio. Che le abbia davvero tenute in quel modo per pochi attimi, come si è affrettato a giustificarsi, non lo scusa molto. I fotografi lavorano al centesimo di secondo per produrre immagini che immobilizzano gli attimi per sempre. Un politico che sta lavorando sul linguaggio del corpo lo deve sapere. Deve controllare ogni attimo. Quel che conta è che nelle fotografie e nei brevi filmati che hanno scatenato la polemica la posa del presidente della Camera appare vistosamente contrapposta a quella delle altre autorità che ha di fianco. Fico, questo almeno è indubitabile, non vuole portare la mano sul cuore mentre suona l’inno nazionale. Può avere un buon motivo per dissociarsi da un gesto che appare a molti come retorico e spesso ipocrita. «Preferisco una mano in tasca per qualche secondo alla mano sul cuore di chi poi tradisce lo Stato», ribatterà alle polemiche. Il problema è che non sembra sapere bene dove altro metterle, le mani. Cosa farne. Non ha un vocabolario gestuale alternativo chiaro. Improvvisa. Alla fine, per suggestione inconscia (chissà se ha visto I pugni in tasca di Bellocchio, profezia ribellistica presessantottina) o per istintivo rifugio («Ero assorto da tutta quella energia e da quelle emozioni»), gli finiscono in tasca. Ed è, ovviamente, un errore colossale, una “parola” visuale sbagliata e stonata che è costretto a smentire. Perché le mani in tasca sono una parola gestuale già carica, nella nostra cultura, di messaggi comportamentali che quasi tutti riescono a leggere benissimo. Il più gentile di questi significati è: imbarazzo. I bambini sgridati tengono le mani in tasca. E già questo sarebbe un errore: la terza autorità dello Stato non può mostrarsi imbarazzato quando suona l’inno nazionale. Se vuole mandare un segno di diversità antiretorica, be’, l’imbarazzo è il peggiore, vuol dire: non so cosa fare, vorrei non essere qui. Allora perché sei venuto? In realtà non era una strada così sbagliata, sulla carta. Pare sia vero che le mani in tasca siano nate storicamente come gesto ribelle, una sottolineatura proletaria (nelle tasche, i padroni tenevano portafogli e orologi d’oro; i proletari le riempivano con le dita per mostrare che erano vuote; e le tengono in tasca quando scioperano), comunque eterodossa (tiene le mani in tasca Charles Baudelaire in un ritratto di Nadar).
Ma le mani in tasca hanno, purtroppo per Fico, anche altri, preponderanti e meno simpatici significati. Codificati. Sì, c’è un vocabolario dei gesti, ed ha perfino i suoi grammatici: gli estensori dei galatei. Non sorridete. Non sono accessori da vecchie zie, quei librini che spiegano come comportarsi in società, che elencano i do e i don’t della buona educazione gestuale. Erving Goffman, il più grande antropologo della recita sociale, li prendeva sul serio e li consultava avidamente, non perché fossero libri che impongono regole, ma perché, come tutte le grammatiche, le riconoscono nei comportamenti sociali comuni, e le esplicitano. Cosa dicono dunque, i galatei, delle mani in tasca? Che sono la posa del fannullone. Le mani sono il segno della laboriosità, lasciarle inattive denota renitenza al dovere sociale del fare e non oziare. E poi, che sono un segno di chiusura. Le mani sono l’interfaccia della relazione, almeno nella cultura occidentale la stretta di mano è saluto, apertura, disponibilità. La mano in tasca quindi si nega alla relazione. Con un connotato di autosufficienza spinto fino alla sbruffoneria. «’Na mano dint’ ’a sacca / e se ne va smargiasso / pe’ tutta ’a città» canta Renato Carosone in un verso di ’O sarracino che come ben capirete so a memoria. Dicono i galatei che in Cina tenere le mani in tasca è considerato un’offesa esplicita. Che in Turchia puoi essere licenziato se lo fai sul posto di lavoro. Del resto, chi si presenterebbe a un colloquio per un’assunzione tenendo le mani in tasca? Un gesto, tra l’altro, tipicamente maschile (le mani nelle vicinanze dei genitali fanno parte di ancestrali riti di corteggiamento, decaduti in volgarità da marciapiede). Un gesto di sfida. In una scena del suo film d’esordio, La valle dell’Eden, James Dean tiene le mani in tasca, cocciuto e ombroso, posando così il primo mattone della sua immagine di ribelle generazionale.
Ma lungi dall’essere sempre un gesto di ribellione, spesso la mano in tasca si associa a un’esibizione di sicumera del potente. Significa: non mi metto sull’attenti di fronte a te. Non mi scomodo nemmeno. Tenere le mani in tasca davanti ai fotografi diventò un marchio identitario per Lewis “Chesty” Puller, generale dei Marines Usa che comandò la lotta antiguerriglia in Nicaragua. Se una sola mano in tasca (l’altra per aria, con sigaretta magari) era un gesto tipicamente dandy, nasconderle entrambe è molto meno raffinato. Tengono le mani in tasca molti modelli nelle foto di moda maschile: per attirare lo sguardo verso il pantalone, ma anche per sdrammatizzare la griffe con un’idea guascona e strafottente da “simpatica canaglia”. Scendendo ancora la china del bon ton, le mani in tasca vengono interpretate come la spia di chi ha “qualcosa da nascondere”. Segno che appartiene all’area semantica della menzogna. In aggiunta a tutto questo, se Fico sta cercando, e di per sé non è una cattiva idea, uno stile comportamentale e un linguaggio visuale che lo distinguano da tutto ciò che la sua ideologia detesta, lo sorprenderà scoprire che parecchi uomini della “vecchia politica” fecero uso dello stesso stile gestuale. Fu proprio un omologo di Fico a sdoganarlo: nel 1994 Carlo Scognamiglio, berlusconiano, pronunciò il suo discorso di insediamento da presidente del Senato con la mano destra ostinatamente insaccata dentro i pantaloni. Sempre al Senato, nella primavera del 2014, Matteo Renzi pronunciò il suo primo discorso da premier con la mano in tasca, la sinistra questa volta (ci sarà mica una segnaletica politica nascosa?).
Ma forse il primo a importare quella posa americana, assieme informale e molto sicura di sé, fu Gianni Agnelli. E Giorgio Armani ne autorizzò a sua volta lo sdoganamento fashion. Non so se Fico conoscesse o meno questi precedenti assai poco rivoluzionari, ma molto determinati nell’affermare un’immagine di potere. Di sicuro, a differenza della sicurezza di quelli là, Fico sembra non sapere bene quale posa alternativa al potere pescare in questa foresta di significanti diversi e opposti; e nel suo palese balbettamento prossemico finisce per cadere preda di linguaggi già strutturati, che non sa padroneggiare, e che lo tradiscono. Così è stato anche per la costruzione dello schema gestuale “presidente della Camera che va in bus e a piedi”, là dove Fico ha sottovalutato clamorosamente l’effetto esattamente opposto che ha avuto il suo passeggiare e girare in bus circondato da una imponente scorta, che non è solo una necessità pratica di sicurezza, ma nel linguaggio visuale è un attributo del potere più irraggiungibile e staccato dal “popolo”. Insomma, come con la lingua delle parole, per parlare bene il linguaggio del corpo non basta improvvisare, bisogna studiare grammatica e letteratura. Il rischio non è la semplice gaffe, ma apparire apprendisti stregoni travolti da apparenze ingovernabili. Per un uomo di potere, sarebbe un fallimento.