di Umberto De Giovannangeli (huffingtonpost.it, 20 aprile 2018)
Non è la bizza di una star di Hollywood. Ma è un rifiuto politico che interroga e scuote Israele più delle manifestazioni che si susseguono ai confini di Gaza, per il quarto venerdì di fila (bilancio provvisorio, due palestinesi uccisi e almeno quaranta feriti).Il gesto di Natalie Portman, le motivazioni che ne sono alla base, danno conto di un malessere profondo che investe le componenti più progressiste dell’ebraismo americano. L’attrice e produttrice israelo-americana ha fatto sapere che non verrà in Israele a giugno a ritirare il Premio Genesis (definito il “Nobel ebraico”) a «causa di recenti avvenimenti» nel Paese. La cerimonia è stata cancellata. Un rappresentante della Portman – citato dal Genesis – ha spiegato che «recenti avvenimenti in Israele sono stati estremamente dolorosi per lei». La ministra della Cultura Miri Regev ha detto che l’attrice «ha ceduto alle pressioni del Bds», Movimento di boicottaggio di Israele. Sempre secondo il Genesis l’attrice ha fatto sapere che proprio per i recenti avvenimenti in Israele – che tuttavia non ha precisato – «non si sente a suo agio a partecipare ad alcun evento pubblico in Israele» e che per questo «non può in tutta coscienza andare alla cerimonia». Il Premio, in un comunicato – citato dai media –, ha sostenuto a proposito della cancellazione della cerimonia «di temere che la decisione della Portman causerà alla nostra iniziativa filantropica una politicizzazione per evitare la quale abbiamo lavorato duramente negli ultimi cinque anni». Il Premio è stato assegnato lo scorso anno all’architetto e scultore inglese di origine indiana Anish Kapoor, nel 2016 al violinista e direttore d’orchestra israeliano Yitzhak Perlman e nel 2015 all’attore americano Michael Douglas. Portman – che è nata a Gerusalemme ed è stata in seguito naturalizzata cittadina americana – ha prodotto e interpretato tra gli altri il film Sognare è vivere, tratto dal romanzo di Amos Oz Una storia di amore e di tenebra. La Portman, nata Natalie Hershlag, è sempre stata orgogliosa del suo doppio passaporto, e in passato ha partecipato a varie iniziative pubbliche per raccogliere fondi destinati all’Agenzia ebraica mondiale. Non solo. Nel 2009 l’attrice si unì ad altre star di Hollywood nella protesta per il boicottaggio contro il Toronto International Film Festival, perché gli organizzatori avevano programmato un evento a tema a Tel Aviv. Insomma, tutto di lei si può dire tranne che sia una “filo Hamas”. HP ha provato a sondare ambienti del mondo dello spettacolo e della cultura israeliani per cercare di capire quali siano i «recenti avvenimenti» che hanno turbato a tal punto l’attrice da portarla a un clamoroso rifiuto. C’è chi sostiene che alla base vi siano proprio gli avvenimenti a Gaza, con le uccisioni da parte di soldati israeliani di manifestanti palestinesi, ma la linea che va per la maggiore è che alla base della scelta della Portman vi sia la determinazione dell’attuale governo israeliano di deportare decine di migliaia di rifugiati africani. Nei siti dei maggiori quotidiani israeliani è scontro aperto tra i sostenitori dell’attrice e quelli che l’accusano di tradimento, di flirtare col nemico, e le consigliano di «andare in Iran per vedere come vengono trattate le donne». La ferita brucia, soprattutto in questi giorni nei quali Israele ha avviato le celebrazioni per il 70° anniversario della fondazione dello Stato ebraico. «Capisco il gesto della Portman – dice a HP Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista – e non comprendo la reazione stizzita della ministra della Cultura. Che vi sia malessere nella diaspora americana per le scelte di chiusura operate da chi governa Israele è cosa risaputa. Invece di interrogarsi sulle ragioni di questo malessere, si preferisce l’insulto, la demonizzazione, la messa alla gogna…». Natalie sarebbe stata la prima donna a essere insignita del Genesis, premio da un milione di dollari assegnato ogni anno a chi, per i risultati professionali e per la dedizione ai valori ebraici, può essere d’ispirazione alle nuove generazioni di ebrei. L’annuncio era stato fatto lo scorso novembre: «Portman rappresenta i tratti salienti del carattere ebraico e i valori del nostro popolo con la sua tenacia, il duro lavoro, la ricerca dell’eccellenza, la curiosità intellettuale e il desiderio sincero di contribuire a rendere il mondo un posto migliore» aveva dichiarato il co-fondatore del Premio, Stan Polovets. La Fondazione Genesis ha mostrato massimo rispetto per la sua scelta: «Portman è un’attrice completa, un’attivista sociale impegnata e un meraviglioso essere umano. Il personale della Fondazione ha goduto del suo sapere negli ultimi sei mesi (dal momento dell’annuncio del Premio), ammira la sua umanità e rispetta il suo diritto di dissentire pubblicamente con le politiche del governo di Israele», ha scritto la direzione della Fondazione in una nota. E proprio questa ultima considerazione apre il dibattito in Israele; un dibattito aspro, a tratti doloroso, vero, che al suo centro ha il tema dell’identità del Paese. «Anche io sono stato accusato di tradimento per aver preso posizione contro la colonizzazione dei territori occupati, e per questo ho avuto anche l’onore di subire un attentato», dice ad HP Zeev Sternhell, il più autorevole e premiato storico israeliano. «Troppo spesso – annota Sternhell, raggiunto telefonicamente nella sua casa di Gerusalemme – chi critica certe scelte politiche e militari compiute dai governanti israeliani viene accusato di essere un antisemita. Un’accusa infamante, la più grave che potrebbe essere scagliata contro un cittadino israeliano o un membro della diaspora. Per quanto mi riguarda, ho sempre distinto tra le critiche per ciò che Israele fa da ciò che Israele è. Se uno pensa che una decisione sia sbagliata non ha solo il diritto ma il dovere di esprimerlo, perché siamo ancora in una democrazia. E tutto questo proprio nulla ha a che vedere con chi critica Israele per essere ciò che è stato dalla sua nascita, il focolare nazionale del popolo ebraico». Quanto al Movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (Bds), si tratta di un gruppo politico transnazionale che mira a pressioni economiche su Israele perché ponga fine all’occupazione dei territori palestinesi. Qualche mese fa, la cantante neozelandese Lorde è stata attaccata e accusata persino di essere “una antisemita”. Gruppi pro-Israele hanno comprato pagine di quotidiani importanti – come il Washington Post – per protestare contro la sua decisione di non esibirsi a Tel Aviv la prossima estate di fronte alle politiche di Israele verso i palestinesi. Cento artisti, musicisti, scrittori, attori e registi hanno firmato una lettera aperta, pubblicata su The Guardian a sostegno del diritto della pop star di cancellare il suo spettacolo in Israele. Tra i firmatari ci sono l’attore Mark Ruffalo, il cantante Peter Gabriel, Roger Waters dei Pink Floyd (particolarmente attivo nel Bds), l’attore John Cusack, il regista britannico Ken Loach, la storica attivista dei diritti civili Angela Davis e la scrittrice Alice Walker. Alcuni artisti come Elvis Costello, Lauren Hill e Bjork sono stati convinti a non suonare nel Paese. Nel 2010 il cantante americano Devendra Banhart e l’irlandese Tommy Sands hanno cancellato i loro spettacoli «in risposta alla politica di Israele». Annie Lennox ha dichiarato che non avrebbe mai più suonato nel Paese. Lo stesso anno i britannici Klaxons, la “virtual band” Gorillaz di Damon Albarn e Jamie Hewlett, e i Massive Attack hanno annullato le proprie performance in risposta al raid israeliano contro la Gaza flotilla, così come gli americani Pixies, che però sono tornati in Israele nel 2014. Nel 2012 fu Stevie Wonder ad annullare un concerto. Tra le personalità che partecipano al Bds ci sono anche l’arcivescovo e premio Nobel per la Pace sudafricano Desmond Tutu, Naomi Klein e Judith Butler. Nel 2013 Stephen Hawking, il grande astrofisico inglese deceduto il 14 marzo scorso, aderì al boicottaggio promosso dal mondo accademico britannico contro Israele. Alla campagna del Bds ha dato la sua adesione Mira Nair, residente a New York, regista di film come Salaam Bombay! del 1988 e di Monsoon Wedding che nel 2001 ha vinto il Leone D’oro a Venezia. Un successo replicato con The Reluctant Fundamentalist, premiato al Festival di Venezia del 2012. «Visiterò Israele solo quando i muri cadranno. Andrò in Israele quando lo Stato non privilegerà una religione piuttosto che un’altra. Andrò in Israele quando l’apartheid sarà finito», ha scritto la Nair in una serie di post su Facebook e Twitter. Altri artisti hanno ignorato la pressione del Movimento di boicottaggio e si sono esibiti in Israele negli ultimi anni: tra i più famosi ci sono Elton John, Leonard Cohen, Lady Gaga, Rihanna, i Metallica, gli Editors e i Placebo, Justin Bieber, Madonna, Paul McCartney, Ziggy Marley, i Red Hot Chili Peppers, Mark Ronson, i Depeche Mode, Gilberto Gil, i Rolling Stones, Alicia Keys, Tom Jones, Bon Jovi e Ozzy Osbourne. Nel luglio scorso i Radiohead hanno suonato il loro concerto più lungo a Tel Aviv e il leader della band, Tom Yorke, si è scontrato pubblicamente con Roger Waters. «Il boicottaggio è un mezzo legittimo. Israele come Stato ne fa uso e predica perfino che altri Paesi dovrebbero seguire l’esempio. Lo praticano anche alcuni cittadini israeliani. C’è un boicottaggio contro Hamas a Gaza, sanzioni all’Iran. Ci sono boicottaggi di negozi non kosher, boicottaggi contro il consumo di carne e delle località balneari turche. E anche il mondo lo usa, imponendo sanzioni alla Russia subito dopo l’annessione della Crimea. L’unica domanda è se Israele merita una punizione simile a quella imposta all’Apartheid Sudafricano nei tempi passati e se tali pratiche sono efficaci», annota Gideon Levy, firma storica di Haaretz. Il dibattito è aperto, e il “caso Portman” lo rende ancor più attuale.