Paolo Pietrangeli, da “Contessa” a Potere al Popolo: «La tv di Maria De Filippi specchio dell’Italia»

di Francesco Oggiano (vanityfair.it, 20 febbraio 2018)

Quando Silvio Berlusconi dice che i comunisti non esistono più, si sbaglia. Almeno uno, ce l’ha in casa. Si chiama Paolo Pietrangeli ed è il volto e la voce più di sinistra del partito più di sinistra che si presenta alle elezioni del 4 marzo.pietrangeli_potere_al_popoloAutore con la sua Contessa della colonna sonora del Sessantotto italiano, passato da Visconti e Fellini, approdato come regista a C’è posta per te di Maria De Filippi, ora è candidato alla Camera con Potere al Popolo. «Mi telefona il compagno Salvatore, trent’anni, un napoletano. Mi dice: “Maestro, sono onorato. Mio padre mi parlava sempre di lei. E io sento le sue canzoni. Vorrebbe venì co’ noi?”. Io gli chiedo: “Ma chi siete voi?”. “Siamo del centro sociale Je so’ pazzo”. Gli dico che li conosco, ma “fatemi avere uno straccio di programma”. Me lo mandano. Dentro c’è la nazionalizzazione delle banche, l’abbattimento delle spese militari e l’uscita dalla Nato. Gli rispondo che ci sto. “E poi c’avete un nome bellissimo”». Potere al Popolo. Un nome, un sogno. Qualche decina di organizzatori, qualche centinaio di attivisti, migliaia di elettori. Obiettivo minimo: raggiungere il 3%. Obiettivo massimo: riportare la sinistra al potere. Naturale che il partito, che sta ricevendo l’appoggio di molti intellettuali, abbia chiamato lui, il cantautore settantaduenne di Contessa. «La sinistra è morta. Restano questi ragazzi entusiasti, cui ho dedicato anche una canzone: Tornerà a soffiare il vento».

Di cosa parla?

«Dice che “L’alba col tramonto si confonde / Dipende da che sponda stai a guardare”».

Tradotto?

«Nel Sessantotto pensavamo di assistere all’alba di un momento straordinario. In realtà, stavamo guardando il tramonto di un periodo combattuto».

È allora che lei scrive Contessa, canzone in cui incita alla rivoluzione gli operai dai campi e dalle officine. Come nacque?

«Ero seduto al bar Negresco di piazza Istria a Roma. Era il periodo dell’occupazione universitaria, dopo che uno studente socialista era stato ucciso. Quel giorno il quotidiano democristiano di destra, La Luna, titolava contro gli occupanti: “Figli di puttana”. Al tavolo vicino al mio, un uomo e una donna iniziarono a parlare dell’occupazione. Li sentii snocciolare una serie di luoghi comuni. Gli stessi che dice Salvini oggi. Mi arrabbiai, ma non dissi niente».

E?

«Tornai a casa. La sera immaginai gli sviluppi di quella conversazione, articolandola tra un generale e una contessa. Scrissi il testo immediatamente».

Ancora oggi quel testo viene urlato durante le manifestazioni di sinistra.

«È aiutata dal testo in dodecasillabi. Ha una cadenza da marcia, la canti benissimo camminando».

Ci sono parole pesanti, come “vogliamo vedervi finire sottoterra”.

«È un testo pieno di simbolismi e metafore, come la falce e il martello, che oggi non hanno più senso. Ma è importante il sentimento che c’è dietro, quello di cambiare tutto».

Magari siamo all’inizio di una vera alba.

«Lo spero. La rivoluzione promessa da Internet ancora non c’è stata. Io spero che attraverso il Web le persone inizino a veicolare contenuti di sinistra, magari uscendo dai ghetti in cui finora sono rimasti rinchiusi».

Lei usa i social?

«Poco. In realtà sto cercando da sei anni di correggere la mia pagina su Wikipedia».

Che cosa vuole modificare?

«Hanno scritto che sono stato direttore della fotografia di un film della Comencini. In realtà feci solo una sorta di backstage».

Figlio di regista [Antonio Pietrangeli, N.d.C.], come ha iniziato a fare cinema nella Roma di quegli anni?

«Un giorno ricevo una telefonata: “Pronto, sono Luchino Visconti”. Gli rispondo: “Aldo, vattene a fanculo”. Pensavo fosse un mio amico che mi faceva gli scherzi. Era veramente Visconti. Mi voleva come assistente per girare Morte a Venezia».

Come fu lavorare con lui?

«Il set era come una messa. Non doveva fiatare nessuno».

Altri tempi.

«Altri registi. Con Fellini, che poco tempo dopo mi aveva voluto per il suo Roma, c’era un casino inenarrabile. Un giorno, eravamo in silenzio, ci sgridò: “Volete fare casino?! Altrimenti non mi viene bene niente”. Mentre ero sul set, mi richiamò Visconti. Mi voleva per un film che doveva fare dopo almeno sei mesi. Gli dissi che stavo lavorando con Fellini, c’era ancora tempo. “Digli tanti saluti e vieni da me!”».

Era una scusa per strapparla alla concorrenza.

«Rifiutai. Visconti si sentì tradito e non mi parlò più».

Anche Visconti aveva il pallino della politica e della sinistra.

«Mentre stavamo girando Morte a Venezia, c’erano le elezioni. Lui ci riunì e improvvisò un gran comizio. Parlò del significato della sinistra, delle differenze tra ricchi e poveri, del bisogno dello Stato sociale. Fu commovente… Finito il comizio, fece salire me e tutti i sessanta membri della troupe su dei charter privati che aveva noleggiato a sue spese. Ci dovevano portare da Venezia a Roma, farci votare, e poi riportarci sul set. Luchino era un ricchissimo uomo di sinistra, con il gusto della contraddizione».

A proposito di apparente contraddizione, dal cinema lei è passato alla tv del “nemico” Silvio Berlusconi. Come ci è arrivato?

«All’inizio degli anni Ottanta, Ettore Scola mi chiese di dargli una mano per un film che poi non si fece mai. Dovevo cercargli un protagonista, una figura ingenua. Provinai Renato Pozzetto, Gerard Depardieu, senza successo. A un certo punto Scola mi dice che ha parlato con Maurizio Costanzo: “Fagli un provino”».

Come andò?

«Il provino, bene. Alla fine però esternai tutti i miei dubbi a Costanzo. Non avevo niente contro di lui, ma gli spiegai che non mi pareva il migliore attore per interpretare una figura ingenua. Erano pure gli anni della P2 [la loggia massonica cui Costanzo è stato iscritto, N.d.R.]».

E lui?

«Legittimamente, chiese: “Ma allora che cazzo sei venuto a fa?” (ride). Poco male, il film non si fece. Ma qualche mese dopo Costanzo mi richiamò».

Che voleva?

«Mi propose di collaborare alla prima sit-com della storia della tv italiana, Orazio. Costanzo protagonista. Io sceneggiatore e regista. Girammo centosessanta puntate. Un periodo bellissimo. Finito tutto, mi chiesero di fare il regista del Maurizio Costanzo Show. Ci rimasi per venticinque anni».

Com’era?

«Divertente. Andavo a pesca di emozioni e sentimenti che si dipingevano sulla faccia degli ospiti».

Ospiti piuttosto originali.

«Alberto Silvestri, il geniale autore di Costanzo e padre del cantante Daniele, durante le riunioni chiedeva ai redattori di trovargli i personaggi più improbabili: una donna con quattro tette, un uomo con tre gobbe. Poi riuniva l’intellettuale e, che ne so, i gemelli albini, sullo stesso palco».

Il suo personaggio preferito?

«Nik Novecento, attore che conquistò tutti per la sua ingenuità e morto a ventitré anni. Inizialmente non lo capii neanch’io, pensavo che fingesse».

Dal Maurizio Costanzo Show lei passa ad Amici di Maria De Filippi.

«Come regista. Ho seguito le prime dieci edizioni».

Com’è cambiato il programma?

«Prima la scuola raccoglieva ragazzi per strada e li formava quasi da zero. Adesso prende ragazzi che sono già semiprofessionisti. Da liceo è diventato un master».

Infine C’è posta per te. Difficile immaginare un uomo di sinistra come lei alla regia di un programma così osteggiato da un certo mondo.

«Vede, se tra cinquecento anni qualcuno vorrà capire l’Italia di oggi lo farà molto di più guardando un vhs di Maria De Filippi che leggendo Repubblica».

L’hanno mai accusata di essersi venduto al nemico Silvio?

«Sempre. Rispondo che le acciaierie di Lenin sono state chiuse da tempo».

Mai avuta qualche pressione?

«Mai, con mia piacevole sorpresa. Certo, ho sempre beneficiato del filtro di Maurizio Costanzo. Se alcune cose sono state chieste, di sicuro non sono mai arrivate a me».

Nessun ordine di scuderia?

«Al massimo, di non inquadrare Berlusconi in un certo modo. Magari per non evidenziare le orecchie grosse. Ma è una cosa che non avrei fatto di mio».

Quanto guadagna oggi?

«Settantamila euro l’anno, su cui poi devo pure pagare le tasse. Non certo uno stipendio d’oro. Ma grazie a quei soldi ho potuto coltivare tutte le mie passioni. Ho prodotto documentari e una quindicina di dischi».

Quali sono stati i soldi meglio spesi?

«Quelli per produrre il mio disco meno ascoltato: Carmela con affetto. Un concept album che racconta l’omicidio di una trans a Roma».

Quelli peggio spesi?

«In realtà sono stato un recordman di progetti irrealizzati. Ho avuto dieci film in cantiere, che poi si sono persi per strada».

Adesso è pronto per il progetto politico. Si è mai candidato a sinistra prima d’ora?

«Sì, nel ’96, senza successo. Ma sono stato pure assessore a Roma per sei mesi, nell’ultimo periodo di Rutelli. Occupai l’ufficio di Paolo Gentiloni, che stava andando via. Un figlio di comunisti. Una persona dabbene».

Che assessorato aveva?

«Non glielo so dire (ride). Era una cosa impossibile: cinema e teatro».

Magari andrà meglio con Potere al Popolo.

«E certo. Spero di essere all’inizio di una nuova alba».

O di un tramonto.

«L’alba col tramonto si confonde / Dipende da che sponda stai a guardare».

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