Si intitola The terms of my surrender (I termini della mia resa) il monologo con cui il regista e attivista statunitense sale sul palco newyorchese, ufficialmente dal 10 agosto. Una pièce teatrale che invita il popolo americano a indignarsi, ma dimentica le dinamiche sociali dietro l’elezione del tycoon
di Antonello Guerrera (repubblica.it, 4 agosto 2017)
“Abbiamo perso le elezioni, ma i veri vincitori siamo noi!”. La retorica della meravigliosa sconfitta della politica italiana è arrivata a Manhattan? No, è Michael Moore che parla dal piccolo Belasco Theatre, dietro Times Square, a New York. Il grande regista e attivista americano, 64 anni, è tornato esordendo sabato a Broadway con lo spettacolo The terms of my surrender, I termini della mia resa.Michael Moore si arrende dunque? No. Il suo, con alle spalle una gigantesca bandiera americana á la Jasper Johns, è un monologo contro Trump e l’America delle armi, della violenza, dell’ignoranza, delle minacce di morte che riceve ogni giorno. “Come cazzo è potuto succedere?”, si scalda Moore nella sua camicia blu, il jeans e il canonico cappellino da baseball. “Eppure abbiamo vinto ancora una volta noi, come accade dal 1992. Clinton ha avuto milioni di voti in più… basta, il 2020 sarà il nostro anno!”. Tripudio dei presenti, molti di mezza età. Moore, solito simpaticone dalla retorica falsamente goffa, vuole aprire una breccia tra gli americani: “Se vi ribellate, ognuno di voi può raggiungere risultati straordinari!”. Cita Rosa Parks e poi la bibliotecaria che scatenò la protesta contro l’editore Harper Collins che dopo l’11/9 aveva ritirato lo scorrettissimo saggio Stupid white man del regista. Non è un dettaglio. Un terzo dello show è una patente di autocelebrazione del brand Moore e dei suoi successi. Anche perché il suo messaggio politico ultra-libertario è rimasto lo stesso, tra il surreale (“due spinelli di Stato al giorno a tutti”) e l’ammirevole (no al climate change, sì alla sanità europea). Moore non si è adeguato all’era Trump, dimentica le dinamiche sociali che lo hanno fatto eleggere, come nel suo Michigan. Restano solo gli slogan e il simbolo della pace alle spalle. Eppure Moore sa essere osservatore sopraffino. Quando parla dello scandalo dell’acqua avvelenata della sua Flint ricorda i tempi migliori. E basta rileggersi i profetici “5 motivi per cui vincerà Trump” pubblicati un anno fa sul suo sito per capirne l’acume. Ma Moore a chi parla in realtà? Dal palco, chiama il popolo americano a indignarsi, seduto in un salottino con la rivista Harper’s, il New Yorker e Zadie Smith. Tutto molto chic ma poco pop. Se Trump su Twitter invoca a sé gli “ultimi” e i “dimenticati”, Moore aizza la rivolta in mille persone più che benestanti che per assistere al suo show hanno pagato tra i 160 e i 250 dollari. Forse la differenza è tutta qui.