
di Giulia Belardelli (huffingtonpost.it, 29 marzo 2025)
Non sono passati neanche settanta giorni dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, ma il suo modus operandi – un decisionismo punitivo volto, secondo lui, a raddrizzare l’America – ha già generato faglie in pressoché tutti i settori della vita pubblica del Paese. Un po’ ovunque – dal governo federale a Capitol Hill, dagli atenei agli studi legali – le persone stanno reagendo alle picconate di Trump secondo due direttrici.
Da un lato, ci sono quelli che mollano, per protesta o per arrendevolezza; dall’altro, ci sono quelli che resistono, per caparbietà o per principio, nella convinzione che aspettare che passi ’a nuttata non sia una via percorribile. È il partito di quelli che temono che, al risveglio, della democrazia americana resti solo un simulacro, o comunque qualcosa di molto più debole rispetto al sistema politico che ha reso – questo sì – grande l’America. È una dinamica che sta emergendo chiaramente nel campo universitario, dove i singoli atenei stanno reagendo in modo diverso all’ultima mossa di Trump, che ha minacciato di bloccare i fondi pubblici per gli istituti accusati di alimentare l’antisemitismo e ospitare studenti filo-Hamas.
C’è chi, come Katrina Armstrong, presidente ad interim della Columbia University, ha deciso di dimettersi in segno di protesta, pochi giorni dopo che l’ateneo ha accettato una serie di modifiche politiche richieste dall’amministrazione Trump come condizione per il ripristino di 400 milioni di dollari di finanziamenti governativi. Tra i cambiamenti, la Columbia ha accettato di rivedere le sue politiche di ammissione, vietare ai manifestanti d’indossare maschere, vietare le manifestazioni negli edifici accademici e mettere il suo dipartimento di studi sul Medio Oriente sotto la supervisione di un nuovo preside con il mandato di rivedere la sua leadership e il suo curriculum.
Altri atenei – come Yale e Harvard – hanno rimosso alcuni dei loro dipendenti in risposta alle crescenti pressioni di Trump. La Law School di Yale ha cacciato la ricercatrice Helyeh Doutaghi, accusata di avere legami con un gruppo soggetto alle sanzioni americane. «In seguito al suo rifiuto di cooperare con l’inchiesta» Doutaghi è stata cacciata da Yale, ha spiegato l’ateneo. La ricercatrice sui social media si è definita oggetto di «un chiaro atto di ritorsione contro la solidarietà palestinese» e ha descritto gli attacchi mossi nei suoi confronti come una campagna «diffamatoria».
In tutto – secondo quanto ha riferito il Segretario di Stato, Marco Rubio – l’amministrazione ha revocato i visti di almeno 300 studenti stranieri che avevano partecipato in vario modo alle proteste contro l’operazione israeliana nella Striscia di Gaza. Ha anche presentato nuove accuse contro Mahmoud Khalil, l’ex studente della Columbia University e attivista per la Palestina arrestato quasi tre settimane fa.
Lo stesso clima di purghe e subbuglio si estende al mondo scientifico, e in particolare al Dipartimento della Food and Drug Administration, dal quale dipendono le valutazioni su efficacia e sicurezza dei vaccini, oltre che delle terapie e dei prodotti biologici. In questo caso, a mollare – prima di essere cacciato – è stato Peter Marks, l’alto funzionario che ha guidato il Center for Biologics Evaluation and Research per quasi un decennio. La sua lettera di dimissioni è un’accusa aperta al Segretario della Salute, Robert F. Kennedy Jr.: minare la fiducia nei vaccini è «irresponsabile, dannoso per la salute pubblica e un chiaro pericolo per la salute, la sicurezza e la protezione della nazione».
«È diventato chiaro» si legge in un altro passaggio «che il Segretario non desidera verità e trasparenza, ma piuttosto una conferma subordinata delle sue informazioni errate e delle sue bugie». Marks ha sottolineato di andarsene con il «cuore pesante» e di essere preoccupato per la crescente epidemia di morbillo in Texas. «Ci ricorda cosa succede quando la fiducia nella scienza consolidata, che sta alla base della salute pubblica e del benessere, viene minata».
Il come reagire al metodo Trump sta aumentando le divisioni all’interno di un Partito Democratico che ancora deve riprendersi dalla batosta elettorale di novembre. Anche qui, ci sono due scuole di pensiero. Quella di chi – come il leader della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer – pensa che la strada migliore sia fare opposizione sì, ma senza escludere compromessi su questioni ritenute d’interesse comune. Schumer è stato duramente criticato dai suoi compagni di partito per non aver invocato la procedura del filibuster per apportare cambiamenti al disegno di legge per evitare lo “shutdown”, la chiusura dei servizi governativi non essenziali. La sua resa ha di fatto spaccato il partito, con richieste di dimissioni sempre più pressanti che finora il senatore ha rispedito al mittente.
Tra chi accusa Schumer – e con lui l’establishment del Partito Democratico – di non fare abbastanza per contrastare l’agenda autoritaria di Trump ci sono sicuramente il senatore 83enne Bernie Sanders e la deputata 35enne Alexandria Ocasio-Cortez. I due hanno lanciato un tour chiamato Fight Oligarchy, un «viaggio» per «discutere concretamente in tutta l’America su come procedere per affrontare gli oligarchi e gli interessi aziendali che hanno così tanto potere e influenza in questo Paese». Gli eventi stanno riscuotendo un certo successo (soltanto a Denver si sono registrate 34mila presenze), a dimostrazione che esiste una parte della società americana disposta a mobilitarsi in nome di una qualche forma di resistenza.
A resistere – non per motivi ideologici, ma per difesa della legge – è per ora soprattutto il mondo della Giustizia, che sta bloccando alcuni dei provvedimenti più controversi di Trump per dubbi di costituzionalità. Negli ultimi due mesi diversi giudici sono intervenuti per bloccare l’espulsione di persone fermate con l’accusa di attività pro-Palestina. L’ultima è stata Denise Casper, giudice del tribunale federale di Boston, che ha emanato nella notte un ordine per impedire la deportazione di Rumeysa Ozturk, la studentessa turca il cui fermo per strada ha sollevato molte proteste. Ozturk «non potrà essere mandata via dagli Stati Uniti fino a nuovo ordine di questa Corte», si legge nella decisione di Casper.
La giudice della Corte Suprema Sonia Sotomayor, nominata nel 2009 dall’allora presidente Barack Obama, è intervenuta venerdì a sostegno di una magistratura «intrepidamente indipendente», dicendosi preoccupata per gli «standard che stanno cambiando». «Una delle cose che sta preoccupando così tante persone in questo momento è che molti degli standard che stanno cambiando […] erano norme che governavano i funzionari su ciò che era giusto e sbagliato», ha detto Sotomayor al pubblico della Georgetown University. «Una volta che le norme vengono infrante, allora si stanno scuotendo alcune delle fondamenta dello Stato di diritto», ha aggiunto.
Il settore della Giustizia è stato particolarmente investito da quella che appare come una campagna di ritorsione condotta dal presidente contro quegli studi legali che avevano partecipato a indagini sulla sua persona. In due mesi a capo dell’amministrazione, Trump ha messo nel mirino già cinque studi legali che in passato avevano rappresentato suoi avversari politici o erano stati coinvolti in cause civili o penali contro di lui. Alcuni hanno deciso di combattere, altri si sono arresi alle pressioni. Nei cinque ordini esecutivi firmati fin qui, il presidente ha revocato agli studi le autorizzazioni di sicurezza necessarie a lavorare con l’esecutivo, ordinato la risoluzione dei contratti governativi e limitato l’accesso agli edifici di Washington ai dipendenti delle aziende.
Il caso più clamoroso è quello della WilmerHale, l’ex studio legale di Robert Mueller, direttore dell’Fbi dal 2001 al 2013, incaricato nel 2017 di indagare sulle interferenze della Russia nella campagna per le presidenziali del 2016 e i presunti legami con i responsabili della campagna di Trump. Venerdì i giudici federali hanno inferto un doppio colpo alla crociata di Trump contro gli studi legali a lui invisi, emettendo ordinanze restrittive temporanee che bloccano gran parte dei suoi ordini esecutivi che prendono di mira, in particolare, WilmerHale e Jenner & Block (lo studio per cui aveva lavorato l’ex procuratore Andrew Weissmann, membro di spicco della squadra investigativa di Mueller).
Anche la Perkins Coie ha intentato una causa contro l’amministrazione e ottenuto un ordine restrittivo da un giudice che blocca temporaneamente le sanzioni. Hanno invece scelto la via della conciliazione amichevole altre due società, la Paul Weiss e la Skadden Arps, che hanno stipulato accordi con Trump per evitare sanzioni. Paul Weiss ha accettato di lavorare pro bono per il governo per un totale di 40 milioni di dollari. Più salato il conto per la Skadden Arps: 100 milioni in cause gratuite.
Lo stesso dilemma su se sia meglio combattere o cedere lo si ritrova in altri settori, dalla cultura ai media, laddove Trump e i suoi collaboratori stanno facendo causa o indagando sui media che hanno prodotto una copertura critica. Jeffrey Goldberg, direttore di The Atlantic, è emerso nell’ultima settimana come capofila dei combattivi. Goldberg ha pubblicato sulla rivista i “piani di guerra” emersi da una chat del Pentagono nella quale era stato invitato per errore. Ha preso questa decisione dopo che Trump, il Segretario alla Difesa e i vertici dell’intelligence hanno dichiarato che nella chat non erano presenti piani di guerra né materiale classificato. Trump aveva provato a minimizzare la portata dello scandalo, definendo The Atlantic una rivista «in via di estinzione» guidata da un direttore «debosciato». All’insulto Goldberg ha risposto con i fatti, ovvero condividendo, nell’interesse pubblico, «il tipo di informazioni che i consiglieri di Trump hanno condiviso su canali non sicuri».
The Atlantic, del resto, è in buona compagnia tra i media visti come il male assoluto da Trump & Company. Emblematico è il caso dell’Associated Press, che da un mese e mezzo è bandita dai punti stampa della Casa Bianca e da altri eventi ufficiali per non aver rispettato l’ordine esecutivo del presidente di rinominare il Golfo del Messico in Golfo d’America. Un avvocato dell’Ap ha chiesto giovedì a un giudice federale di ripristinare gli accrediti all’agenzia, affermando che il divieto dell’amministrazione Trump è un attacco fondamentale alla libertà di parola e dovrebbe essere annullato. Dopo un’udienza di un giorno intero, il giudice distrettuale degli Stati Uniti Trevor N. McFadden ha rinviato il caso senza una decisione.
Per quanto riguarda il mondo della cultura, la permanenza o meno nella programmazione del John F. Kennedy Center for the Performing Arts racconta la scelta tra l’adeguarsi o il combattere. Dopo che Trump si è autoproclamato presidente del Centro, sostituendo i membri del Consiglio con politici a lui fedelissimi, diversi artisti stanno boicottando l’iconica sede di Washington D.C. in segno di protesta. Adam Weiner, frontman della rockband Low Cut Connie, ha motivato così la decisione di spostare il concerto in un’altra location: «Trump che prende il controllo del Kennedy Center, licenzia metà del Consiglio, cambia la programmazione… questo è autoritarismo in arrivo per le istituzioni artistiche. Da artista non posso sopportarlo». E ancora: «Siamo un po’ sonnambuli in questo Paese. Le persone non si rendono conto di quanto possa peggiorare la situazione. Non parlare di questi cambiamenti è un’approvazione tacita. Una capitolazione».