di Giulio Zoppello (wired.it, 10 dicembre 2024)
Il miglio verde (The Green Mile) di Frank Darabont compie un quarto di secolo. Dopo tutto questo tempo, questa sublime trasposizione del romanzo di Stephen King rimane uno dei titoli più amati e ricordati dal grande pubblico, in virtù di una caratura innegabile a livello formale e di significati. Toccante, profondo, capace di essere un mix di genere di grande innovazione, è però soprattutto uno dei più grandi film carcerari di ogni tempo, un risveglio della coscienza unico nel suo genere.
Il miglio verde chi l’ha visto non l’ha più potuto dimenticare. Ancora oggi, a venticinque anni di distanza, rimane una delle esperienze cinematografiche più potenti, memorabili e significative che il genere carcerario abbia offerto. Darabont era reduce dal successo ottenuto con un altro capolavoro assoluto del genere, quel Le ali della libertà (The Shawshank Redemption) che ad oggi è l’unico film a poter essere messo allo stesso livello de Il miglio verde, non a caso entrambi nati dalla geniale mente di Stephen King.
Tuttavia, il fatto che proprio il grande autore da sempre indichi ne Il miglio verde la migliore trasposizione di una sua opera letteraria, basta e avanza per illuminare il film di Darabont di una luce unica, ancora oggi immutata per la capacità che ha avuto di rendere verosimile una narrazione inverosimile. Il risultato fu possibile proprio grazie al successo ottenuto però con Le ali della libertà, che si era rivelato non sono un grandissimo successo di pubblico e di critica, ma aveva dimostrato alle majors quanto fossero ritenuti importanti quei film capaci di affrontare tematiche difficili e attualissime in quel finire di anni Novanta.
Era un decennio in cui il cinema metteva in discussione molti punti cardine della società americana, quelli che per tanto tempo nessuno aveva pensato si potessero scalfire. E in quegli anni Novanta, che Rob Lowe ancora oggi definisce l’ultima grande decade, in quell’America dove si abbattevano barriere e si parlava di cambiamento, la pena di morte era uno degli argomenti più discussi e su cui l’opinione pubblica e la politica si erano maggiormente divise.
Ci si chiedeva da parte di molti quanto fosse giusta, quanto funzionasse, ma soprattutto era emersa una marea di casi in cui erano stati condannati uomini ingiustamente o erano stati commessi errori imperdonabili, dettati da razzismo o da classismo. Il carcere dominava, quindi, il grande schermo in quegli anni. C’erano stati Nel nome del padre, Schegge di paura, un altro capolavoro come Dead Man Walking, Il momento di uccidere e L’isola dell’ingiustizia. Davvero era giusto togliere la vita a un altro uomo? Anche al peggiore degli uomini? Una delle tante domande che dominano Il miglio verde, ambientato dentro un braccio della morte nel carcere di Cold Mountain.
L’incipit de Il miglio verde ci fa conoscere l’anziano Paul Edgecombe (Dabbs Greer), ospite centenario di un ospizio, che si commuove guardando Cappello a cilindro di Mark Sandrich e comincia a spiegare all’amica Elaine (Eve Brent) la sua storia. Il film ci porta, attraverso le sue parole, agli anni Trenta, quando Paul (Tom Hanks, da giovane) era una guardia carceraria, a capo per diversi anni proprio del “miglio verde”, il braccio della morte dove sostavano per diverso tempo i condannati a morte in attesa della sedia elettrica.
Compito ingrato che comunque Paul e i suoi sottoposti – Brutus Howell (David Morse), Dean Stanton (Barry Pepper) e Harry Terwilliger (Jeffrey DeMunn) – portano avanti con intelligenza e senso del decoro. Solo il giovane, sadico e raccomandato agente Percy Wetmore (Dough Hutchinson), parente del Governatore, si distingue per sadismo e crudeltà verso i detenuti. Tutto cambia per loro nel momento in cui arriva nel “miglio verde” il gigantesco John Coffey (Michael Clarke Duncan), un erculeo afroamericano condannato per lo stupro e l’omicidio di due sorelline, un crimine che ha fatto scalpore nello Stato.
Tuttavia, nel giro di pochissimo tempo, Tom e gli altri cominceranno a intuire che c’è qualcosa di strano in quell’uomo, che, pur se dotato di una forza fisica colossale, è anche una creatura timidissima, bonaria, che ha paura del buio e non farebbe male a una mosca. A conti fatti, è il più improbabile “ospite” che il loro lugubre reparto abbia mai contenuto in quegli anni. Il miglio verde parte da questo dubbio per poi ampliarlo, renderlo gigantesco, sorprenderci, almeno per quanto riguarda il legame tra sogno e realtà, tra possibile e impossibile. Lo fa mostrandoci come questo gigante abbia delle proprietà curative incredibili, che dona senza chiedere nulla in cambio al prossimo.
Fino all’ultimo John cercherà di aiutare come può chi gli sta attorno con i propri poteri, ma ciò che rende Il miglio verde così interessante è che, collegandosi a tematiche come quelle del peccato, dell’espiazione, così come a una ombreggiatura più connessa alla mitologia antica, fa di questa sorta di guaritore, il portatore di qualcosa di ambiguo. Salvatore dei più deboli, John non lo può essere di sé stesso; difatti diventa anche il volto della sofferenza che si accompagna all’empatia, quella più profonda, quella più universale.
Per tutto il film John Coffey è costretto a farsi carico della sofferenza dei ricordi e dell’identità degli altri, ed è un qualcosa che gli risulterà talmente insopportabile da rifiutare persino la possibilità di salvarsi, di fuggire, che Tom e gli altri alla fine decidono di donargli. Frank Darabont ha una mano semplicemente sontuosa nel fare de Il miglio verde un melodramma tanto commovente da risultare, in alcuni momenti, assolutamente straziante. Ma questo è anche un film feroce e impietoso. Lo è grazie a Hutchinson e il suo Percy, ma anche a un bravissimo Sam Rockwell e il suo Wild Bill, il detenuto più malvagio, infido e pittoresco.
Sono due lati della stessa malvagità, quella squilibrata, folle, quella che atterrisce l’America da sempre. Il miglio verde, grazie a caratteristi di lusso come Michael Jeter, Graham Greene e Harry Dean Stanton, ci mostra una realtà carceraria terribile e opprimente, ma dove l’umanità sopravvive nella capacità, da parte di detenuti e prigionieri, di donarsi speranza e rispetto gli uni verso gli altri. La sedia elettrica, mostro di ferro ed elettricità, è protagonista di scene d’esecuzione terribili che Darabont dirige con mano sicura.
Il miglio verde abbraccia spesso una suspence e una tensione quasi insopportabili, così come un orrore che ci travolge. L’insieme diventa un dito puntato contro il sistema giudiziario americano, specchio di una società fallace e violenta, dove togliere la vita a un altro essere umano è considerato qualcosa di accettabile. Nel film l’attesa della morte e le reazioni umane legate ad essa sono grandi protagoniste, ma Il miglio verde porta con sé, nel pieno della narrazione cinematografica americana di quegli anni, anche frequenti parentesi fatte di umorismo, umanità e calore.
Il testimone semantico che passa di mano in mano, e rappresenta l’incredibile che diventa credibile, è il piccolo Mr. Jingles, il topolino che da detenuto in detenuto, infine, arriverà ad essere l’ultimo superstite assieme a Tom, sopravvissuto a chiunque amasse. Perché hanno avuto una vita così lunga solo loro due? Con questa domanda senza risposta, il film si connette a una visione da Antico Testamento, con il testimone eterno tale per un misterioso disegno divino di difficile lettura e comprensione, elemento ricorrente nella narrativa di Stephen King.
Il miglio verde è un film che sa anche come lasciare interdetto lo spettatore, con John Coffey che imprevedibilmente diventa giustiziere di Wild Bill, il vero colpevole del crimine per cui lui è stato ingiustamente accusato, e del crudele Percy. In questo, vi è la giusta dose di imprevedibilità con cui il film eleva sé stesso. Con una fotografia straordinaria di David Tattersall e una colonna sonora di Thomas Newman azzeccatissima, Il miglio verde fa dell’accessibilità la propria essenza. Il tutto a dispetto di una messa in scena incredibilmente complessa, con un uso della luce e dei colori con pochi eguali nel cinema americano di quegli anni.
Ma la memoria, la memoria che ci viene mostrata come l’elemento più importante del racconto, è un fardello spesso e volentieri, quasi che l’uomo non potesse maneggiarla eccessivamente, così come futile è il cercare di comprendere quel qualcosa oltre l’umano e il terreno. Il miglio verde in questo diventa anche metafora della ricerca di una verità irraggiungibile: un esistenzialismo cinematografico con cui Darabont ci parla di limiti oggettivi e invalicabili, ma anche di quanto sappiamo riscattarci.
Il miglio verde, forte anche di numerosi omaggi a Steinbeck, Faulkner, alla grande narrativa americana, conobbe un successo folgorante di critica e pubblico. Incassò 270 milioni in tutto il mondo e fu candidato a ben quattro Premi Oscar. Ma più ancora, il film di Frank Darabont rimane ad oggi un esempio perfetto di come riuscire a unire più generi, creando qualcosa che sappia elevare il meglio di ognuno di essi. Impreziosito da performance attoriali notevolissime, quelle di Hanks e Duncan su tutti, Il miglior verde rimane un’opera sull’importanza dei rapporti umani di grande complessità e grande profondità.
A venticinque anni di distanza, è soprattutto questa sua caratteristica a renderlo uno dei film più amati di tutti i tempi. Seppe forse più di ogni altro film carcerario dell’epoca instillare un dubbio, un rovello interiore, connesso all’utilità e all’eticità della pena capitale, sulla possibilità di redenzione e la fallacia della società e dell’essere umano in generale. Negli anni a venire, tanti altri film avrebbero cercato di imitarne la potenza e la capacità di persuasione, ma Il miglio verde rimane un caso unico, uno dei tanti motivi per cui quel decennio cinematografico fino alla fine ha saputo essere inimitabile.