di Irene Soave (corriere.it, 10 dicembre 2024)
«Un profumo a cui nemmeno i tuoi nemici resistono». La foto di Jill Biden che sorride in maniera più che cordiale all’arcinemico Donald Trump, seduto due posti alla sua sinistra all’inaugurazione della Notre-Dame restaurata, ha fatto scatenare meme e commenti sui social. Il più perfido l’ha fatto lo stesso Trump, che ha usato proprio quella foto per fare pubblicità [sul suo social Truth – N.d.C.] alla sua linea di profumi Fight Fight Fight.
Si chiamano così, scrive, «perché rappresentano noi, che vinciamo. Un grande regalo per la famiglia». E sotto la foto lo slogan sulla colonia irresistibile, perfido calcio dell’asino. Ma è normale, si chiede il New York Times, che un capo di Stato abbia il suo merchandising ufficiale, prodotto e distribuito da una sua azienda?
Non ci sono solo i profumi Fight Fight Fight. Ci sono, da anni, anche scarpe da ginnastica, magliette (criticate perché “Made in Mexico”), cravatte (criticate perché “Made in China”), cappellini, orologi. Ma anche hotel e residenze in tutto il mondo – ora la Trump Tower di New York è praticamente assediata da polizia e servizi segreti, ma ci si può comunque entrare a fare un giro –, resort e campi da golf, per un totale di cinquantotto attività sotto il marchio Trump, così quantificò nel 2017 il Washington Post.
Alla vigilia della prima presidenza, perlomeno, i figli rilevarono alcuni marchi di famiglia a loro nome, per garantire almeno pro forma una separazione tra gli affari privati e quelli pubblici della più alta carica dello Stato. Questa volta, a quanto sembra, liberi tutti: a una conferenza stampa recente, i portavoce di Trump non hanno risposto a chi chiedeva loro cosa avrebbe fatto dei suoi prodotti dopo il giuramento. Forse immortalerà il momento in una linea di magliette?