La fanzine come atto di ribellione radicale

di Emma Besseghini (linkiesta.it, 11 luglio 2024)

Il rapporto tra il mondo digitale e quello della carta stampata nasconde linee di continuità spesso trascurate. Meme, fake news, immagini e porzioni di testo remixate e incollate insieme sembrano novità recenti, ma il processo alla base della produzione di questi contenuti affonda le sue radici in un universo dimenticato, fatto di carta, inchiostro, concerti underground e centri sociali.

Francesco Ciaponi, esperto di grafica ed editoria indipendente e professore di Storia della stampa e dell’editoria all’Accademia di Belle Arti di Brera, nel libro Fanzine Culture (Flacowski, 2024) ripercorre le origini della stampa amatoriale, un fenomeno culturale frastagliato nato negli Stati Uniti nel XIX secolo. Ciaponi, non a caso, è considerato uno dei principali cultori delle fanzine sul panorama nazionale.

Insieme ad Alberto Forni, autore della prefazione, Ciaponi prova a illuminare un fenomeno editoriale troppo spesso ignorato dal dibattito mediatico, culturale e accademico, anche per colpa dei «dotti della comunicazione», come si legge nell’introduzione. In fondo, se ci pensiamo, «le fanzine sono il sale dell’underground e l’underground è il nostro ossigeno», come diceva il giornalista Luca Frazzi – citato all’inizio del libro – che, nel gennaio del 2022, ha pubblicato con la storica rivista di musica rock e alternativa Rumore una guida dal titolo Sniffando Colla, 50 + 50 fanzine musicali italiane.

L’etica del do it yourself è stata l’humus culturale che ha accompagnato la nascita e la proliferazione di numerose sottoculture, che hanno trovato nella fanzine il medium perfetto per raccontare un mondo diverso, autenticamente rappresentativo delle diversità, ipersegmentato e libero, proponendo un’idea di società per cui valesse la pena lottare, in una forma di attivismo ibrida (tra arte e politica). Attorno al mondo della stampa indie, infatti, si costruirono negli anni vere e proprie comunità, strette da uno stile di vita condiviso e un approccio alla vita orizzontale e partecipativo.

L’amore e la rabbia erano i motori di questo tipo di produzione, che, tra le altre contestazioni, rivendicava la creatività del “dilettante”: non valutato per la sua inesperienza, ma valorizzato per la sua purezza, il suo slancio idealista, il carattere non corrotto dallo sguardo cinico della società. Le fanzine univano aspirazioni rivoluzionarie a un pratico impegno creativo. Tagliare, incollare, scrivere e poi fotocopiare, stampare, cucire, permetteva una produzione limitata di copie, ma dal valore inestimabile, dato dal grande lavoro di cura che caratterizzava l’intero processo creativo.

«Un altro dei tratti più caratteristici della produzione “fanzinara” è senz’altro l’attrazione nei confronti di quelle che Hito Steyerl – artista visiva e film-maker – ha definito, le poor images, ovvero le “immagini povere”, la bassa definizione, la scarsa qualità. Questo concetto si definisce al suo meglio se lo prendiamo per eccezione, se cioè analizziamo la produzione visuale che oramai da decenni ci circonda e che possiamo definire come tendente alla perfezione, alla totale post-produzione, all’alta definizione, in poche parole alla definitiva scomparsa di tutto ciò sia lontanamente associabile a un’imperfezione», conclude Ciaponi.

Se dopo la rivoluzione informatica l’atto di scrivere ha assunto una forma diversa, più mainstream e più rapida, invadendo le nostre società e cambiandole nel profondo, le fanzine tornano oggi a essere un rifugio immaginifico, in cui poter riscrivere la propria esistenza. Forse, da qualche parte, c’è ancora margine per un’autentica sperimentazione del pensiero selvaggio.

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