di Giada Biaggi (ilpost.it, 8 novembre 2024)
Un minuto e mezzo. Novanta secondi. La durata massima di un reel di Instagram, ma anche all’incirca quella dell’apparizione cameo di Kamala Harris lo scorso 2 novembre al Saturday Night Live, lo show comico di punta di Nbc, l’emittente “blue-Klein-democrats” (vuol dire “blu partito democratico”, volevo giocare con l’arte riferendomi a Yves Klein, un artista celeberrimo per il suo blu, ma mi sa che sul Post devo spiegarlo bene), al fianco della comedian Maya Rudolph.
Lo sketch è consistito in un meta faccia a faccia. La scenografia è quella di un camerino; le due si sono fatte beffa della retorica del girl power, ma anche delle dinamiche da minutaggio castrante dei social; non a caso infatti la durata del tutto è stata agile, ogni singola punchline (frase di chiusura) è stata scritta e pensata per il suo rarefatto, seppur comunicativamente incisivissimo, futuro prossimo virale. «End the Dramala» è sicuramente tra le battute più riuscite. Il Truman Show che ormai viaggia sulla fibra, la tv che si verticalizza, le ideologie che si decostruiscono come matrioske. E lo fanno in diretta. Questo è lo stile geniale e postmoderno di quello che a mio avviso è il migliore programma televisivo al mondo. Trump, però, li ha rivoluti indietro questi novanta secondi, circa diciotto ore dopo.
Devo dire che dopo Sir John Mulaney (se non avete visto il suo speciale comico Baby J su Netflix con la sigla di David Byrne, fatelo, asap) – Mulaney che tra l’altro è stato ospite d’onore di quella stessa puntata del Saturday Night Live, Mulaney che tra l’altro si è sposato e ha fatto un figlio spezzando il mio sogno di diventare sua moglie e dar vita a una delle coppie comiche più pazze del mondo –, ecco, dopo di lui, Donald Trump è ufficialmente il mio comico maschio bianco-arancione preferito. In un baratto mediatico destinato a secolarizzarsi la scorsa domenica ha ottenuto di apparire sulla Nbc nell’intervallo pubblicitario di una gara Nascar con il suo berrettino e il suo populismo di ordinanza in un non sketch, che però brechtianamente è così estraniante da risultare comico; con la bandiera americana sullo sfondo Trump sembra a tutti gli effetti il suo imitatore del Saturday Night Live (d’ora in poi Snl): Mr. James Austin Johnson.
L’imitazione di Kamala della Rudolph, riproposta in ogni puntata dell’ultima stagione del Snl, è un’imitazione caricaturale sì, ma al contempo in grado di endorsare (cioè di sostenere, appoggiare, da endorsing); ho adorato quello sketch in cui, in una finta intervista da parte di un giornalista di Fox News, si girava a un certo punto, guardando in camera, con lo schermo televisivo nel frattempo diventato quello di un video di TikTok, e rompendo la quarta parete, in un Fleabag che incontra House of Cards che incontra lo Zeitgeist at its finest (lo Spirito dei Tempi al suo meglio), dice: «Very demure».
Quando mi chiedono perché sono arrivata a fare la comica, questa par condicio à la américaine così sexy e veloce è sicuramente uno dei motivi. Il Bergson (il filosofo francese Henri) in un suo saggio intitolato Sul riso scrive come quest’ultimo anestetizzi il cuore per arrivare direttamente all’intelletto; e l’ironia riesce a fare questo solo quando ha una Gestalt, una forma, uno stile per l’appunto. Ci si chiede spesso quando la sinistra abbia smesso di vincere in Italia, o comunque se non proprio di vincere se non altro di essere un brand (marchio) riconoscibile, nel quale una certa fetta di popolazione potesse gioiosamente identificarsi. Oggi molti di noi non hanno neanche più la sensazione epidermica che la sinistra stia perdendo, e questo ci fa capire quanto sia effimera la sua consistenza; il suo immaginario.
La mia personale risposta alla domanda in calce è che ciò sia avvenuto quando la sinistra ha smesso di rinnovare la propria estetica, il proprio storytelling (che sarebbe l’arte di raccontarsi come strumento di persuasione politica) attraverso la satira e poi in un’impasse di gentrificazione concettuale (questa la lascio così, se mai saltate) abbia iniziato a concedersi al pop senza cognizione di causa; senza una visione, senza gusto. Mischiarsi con il mainstream (c’è pure in un titolo quindi non devo spiegarlo) non è automaticamente progressista e sinonimo di stare al passo con i tempi; Elly Schlein che duetta con J-Ax non è neanche lontanamente paragonabile a Michele Apicella che canta Franco Battiato in Palombella rossa.
Anche perché Michele Apicella si vestiva bene mentre Elly Schlein, ce ne perdoni l’armocromista, ma no; Nanni Moretti il loden con la sciarpa per parlare male di Emilio Fede se lo metteva – che Fede non fosse «un personaggio comico, nemmeno drammatico, ma un personaggio violento» ce lo ricordiamo tutti. In quel discorso epocale, Moretti ci ha reso interessantissimo, risemantizzandolo davanti a un pubblico ideologicamente compatto, il più banale degli aggettivi: violento. Facendo un salto nel tempo, non si può negare che in pochi mesi da ministro la dialettica di Alessandro Giuli sia diventata più distinguibile, insomma più brandizzata e brandizzabile, di qualsiasi discorso di un qualsiasi leader di sinistra degli ultimi anni. Giuli è violento come lo era Fede; lo è perché ha una sua veemenza epidermica in grado di generare narrazioni e quindi capace di durare nel tempo. Lo scarto con il presente sta nel fatto che non si è creato un erede di Nanni Moretti in grado di epitetare lui e chi per lui in quel modo.
Torniamo alla comicità avant-garde di New York City; io con la mente sono lì, non chiedetemi se guardo Zelig o se mi fa ridere Stefano De Martino. Please do not. «Donald Trump è il tipo che pippa in mezzo al soggiorno durante una festa; tutti hanno la decenza di farlo in bagno ma lui no»: questa è Sarah Silverman in un estratto di un suo sketch di qualche tempo fa che ha ripubblicato su Instagram per fare un reminder ai suoi follower di recarsi (andare) alle urne.
Poi c’è stato Jimmy Kimmel che, sulla Abc, nel suo late night, martedì scorso ha fatto un monologo anti Trump di ben diciannove minuti esilarante e analitico al contempo con perle del tipo: «Donald Trump è il punto di incontro esatto tra QAnon e Qvc. Vi ricordate quando Ronald Reagan vendeva scarpe con il tacco negli anni Ottanta? No, non ve lo ricordate perché non lo faceva». (Qvc sta per “Quality, Value, Convenience”, canale televisivo americano fondato nel 1968 per vendere prodotti di qualità, valore e convenienza, che poi in Inglese sarebbe la comodità). Torniamo alla Gestalt; ebbene sì ho studiato Filosofia a Berlino e ogni tanto ho bisogno di farlo emergere. Mi sento la nemesi femminile di Fabio Fazio quando continuava a dire «Oppenheimer» nella sua intervista alla Ferragni per legittimarsi intellettualmente.
Poi c’è il bagno di realtà di oggi. La sconfitta (qualsiasi cosa dal Ring di Wagner playing in the background come colonna sonora). Harris ha perso, Trump ha vinto. Proprio quella Kamala Harris che lo scorso mese è stata intervistata da Alexandra Cooper sul vodcast a conduzione femminile più seguito degli Stati Uniti, aka Call Her Daddy: il progressismo si è fatto così notiziabile per Whoopsee e siti femminili annessi. Durante la puntata tra le altre cose si è parlato del fatto che gli uomini non conoscono il prezzo dei tampax e del fatto che la vicepresidente degli Stati Uniti sia stata l’unica politica nella storia ricoprente una carica così alta ad aver mai visitato un centro per la riproduzione.
Alex indossava pantaloni di pelle a zampa, stivaletti con il tacco, felpa con il cappuccio oversize, mollettone tra i capelli; se le millennial dovessero scegliere un’uniforme con la quale vestirsi per tutta la vita probabilmente sarebbe questa. E anche qui: Gestalt. La Cooper prende l’outfit da influencer basic bitch e parla di politica. In maniera molto più umile era un po’ quello che ho cercato di fare anche io quando, durante la penultima puntata del programma di Chiambretti, ho detto: «La sinistra italiana deve ripartire da una comica femminista vestita haute-couture che si masturba pensando a Marx ed Engels» (in qualità di progressista italiana penso sia molto importante mischiare i linguaggi per dar vita a un cambiamento).
E quindi, in tutto questo glam, cos’è andato storto? Il glam stesso si è tradito. In Bianco Bret Easton Ellis, che sappiamo tutti essere un super dem, fa una critica puntualissima agli avversari di Trump, scrivendo come Trump abbia iniziato a vincere quando una buona parte dei suoi oppositori hanno iniziato a usare il linguaggio violento del loro nemico: nel 2018 un attore suggerì che il figlio undicenne del presidente venisse chiuso in gabbia con dei pedofili. E tutto ciò veniva da Hollywood, la terra dell’inclusione e delle differenze.
Il perseverare nella comicità forse è l’unica arma contro il populismo, quando però questa ha un endoscheletro cerebrale, quando si purifica dal paternalismo e dal bad taste (cattivo gusto); quello che ha reso i democratici tali è proprio il loro humor raffinato, ma anche, ahimè, come ha notato Ellis, l’essere caduti spesso in «una rabbia infantile», perché ogni volta che ci si arrabbia e basta si abdica alla propria libertà. L’ira è un sentimento intrinsecamente fascista; lo è perché si è dominati da una forza fagocitante più grande che annichilisce la razionalità.
Da comica trovo molto commovente che il comedian negli States sia ancora investito di questo potere politico e intellettuale: la giusta satira è un gene catalizzatore di progresso, soprattutto quella femminile, soprattutto se di donne della mia generazione: quelle che hanno ancora abbastanza vita davanti per poter essere incisive sulla Storia e sulla propria biografia personale. E in Italia si sente una grande mancanza di satira femminile under 40 (sotto i quarant’anni).
Insomma, la mia tesi è questa: di formazione sono pur sempre una filosofa analitica, ho bisogno di scandire triadicamente tesi, antitesi, sintesi e altre quisquilie:
– la satira è fondamentale per prendere il potere, perché produce immaginario;
– in Italia la sinistra ha perso da un pezzo la capacità di creare, e sabotare, il proprio immaginario attraverso la satira;
– negli Stati Uniti va un po’ meglio, ma comunque gli stessi democrats che guardano l’Snl hanno dato del pazzo a Trump infantilizzandosi;
– Trump è il meme di sé stesso e per questo ha vinto;
– io forse se avessi un uomo che mi ama e un cane che mi ubbidisce non starei scrivendo questo pezzo.
Quando chiudo gli occhi, mi immagino un’Italia migliore in cui ci sono tante donne che amano far ridere più che sentirsi dire quanto sono affascinanti; mi vedo Zoro recitare il mea culpa al riguardo in una puntata di “Fanta-propaganda”. Magari anche l’ultima, e poi esce e va da Prada; si compra una bella camicia di seta. Color blue-Klein-democrats (vedi sopra). Ça va sans dire (non c’è bisogno di dirlo).