Trump, lo show prima del voto: «Io non sono un politico, sono una star»

Ph. Jonathan Ernst / Reuters

di Aldo Cazzullo (corriere.it, 3 novembre 2024)

Salem (Virginia) – Non è un comizio. È uno show. Infatti dura più di cinque ore; le ultime due con lui sul palco. A segnare una mutazione ormai irreversibile della destra americana e globale. Come in ogni show, si ride e si piange. Si ride – con una punta di angoscia al pensiero che l’attor comico è il favorito per la Casa Bianca – quando Donald Trump fa le imitazioni.

Rifà la voce di Kamala e quella di Musk, accenna un passo di danza, si muove e parla come Hannibal Lecter, il cannibale del Silenzio degli innocenti, assicurando che gli immigrati clandestini sono più feroci di lui; poi scoppia in una risata, divertito da sé stesso. Si piange – con una punta d’indignazione nel vedere un dramma sfruttato senza pudore – quando l’attor tragico cede il palco alla mamma di Kayla, una bambina «che amava Dio e gli animali», uccisa da due clandestini. Alla fine del racconto della madre – «se Donald fosse rimasto alla Casa Bianca, mia figlia sarebbe qui con noi» –, Trump ottiene l’unica, vera ovazione, quando ruggisce: «Pena di morte per ogni clandestino che uccide un americano!». A dire il vero, un’altra ovazione appena meno intensa gli viene tributata quando grida: «Niente tasse sulle mance!».

In platea molti hanno figli o nipoti che fanno il cameriere. Trump ha realizzato infatti questo prodigio politico: farsi votare dai ricchissimi, che il problema delle tasse l’hanno risolto da tempo, e dalle classi popolari. Nell’angolo dei Vip, il governatore milionario Glenn Youngkin, la sua vice Winsome Sears – l’unica nera in una platea bianca –, i bambini in giacca e cravatta, figli dei finanziatori illustri. Fuori, in coda per entrare, migliaia di popolani della Virginia.

La coda è la parte migliore dello show. Molti indossano il gilet giallo fosforescente degli spazzini, quello che Trump ha messo per salire sul camion della nettezza urbana. Biden li ha definiti spazzatura? Loro lo rivendicano; «e Donald è uno di noi». Non importa se è miliardario e ha avuto, o dice di aver avuto, le donne più belle del pianeta; è uno che pensa e sente come loro. Ma, a differenza di Trump, i militanti repubblicani della Virginia sono persone educate, gentili. Nessuno è mai stato in Italia o ha i soldi e il passaporto per andarci, però sono sinceramente contenti che uno straniero venga a sentire Trump: «Vedrai, non è come dicono, è una brava persona, fidati di lui, è la nostra ultima speranza per riavere indietro il nostro Paese».

Lo show comincia con la preghiera cristiana e quella laica. Un reverendo invoca la protezione dell’Altissimo «su Trump e la sua famiglia, affinché il diavolo e le forze delle tenebre non prevalgano su di loro»; e qui la folla non sorride, anzi china il capo, i mariti abbracciano le mogli, le madri si stringono ai bambini. Poi l’inno, cantato – benissimo – a cappella da un coro pure quello rigorosamente bianco, che scioglie tutti in lacrime. Lo show può cominciare, con i candidati locali, il sotto-clou.

La scenografia è fatta da immagini, frutto dell’Intelligenza Artificiale, più ridicole che inquietanti. Messicani dai coltelli affilati che attendono in agguato nei vicoli una signora bionda. Cani randagi che si aggirano in una discarica con la scritta: «Kamala farà dell’America una gigantesca Haiti». La musica è quella dei redneck, i colli rossi, i lavoratori del Sud: country, folk, con un’incursione di Pavarotti e il tema di Rocky che accoglie Trump, appena arrivato dal North Carolina. Il passo è malfermo, goffo, il volto disteso, compiaciuto.

Comincia a parlare che c’è ancora il sole, finisce a notte fonda. Il suo monologo non ha nulla del comizio tradizionale. Alterna slogan, ripetuti sino alla noia – per cinque volte dirà che «siamo alla vigilia del più grande evento della storia americana», cioè la sua rielezione –, insulti a Kamala – «stupid» è il meno offensivo –, e racconti che vorrebbero essere divertenti. Del resto, Trump lo teorizza, ed è questa la sua forza: «Io non sono un politico, sono una star».

Così rievoca, con il tono dell’intrattenitore, la telefonata al caro Musk: «L’uragano aveva isolato il North Carolina, io ho chiamato Elon, gli ho detto: “Ehi, Elon, cosa possiamo fare per i buoni americani del North Carolina?”, e lui ha risposto: “Ci penso io, con Starlink”. Un minuto dopo, mentre eravamo ancora al telefono, pam!, Starlink ha collegato i senzatetto con la Fema”, la Protezione Civile. “Allora io ho chiesto a Elon: “Wow, Elon, come hai fatto, se stavi al telefono con me?”. È un mago, Elon, ed è un mio amico».

La vittoria la dà per certa, anche qui in Virginia dov’è in testa la Harris, «senza brogli vincerei pure in California». Alla politica estera dedica trenta secondi: «Farò finire le guerre ed eviterò la terza guerra mondiale». Come, non si sa. Il programma non esiste: «Trump will fix it», lui risolverà tutto. Il trumpismo è messianesimo e improvvisazione: «Tornerà l’età dell’oro americana». Gli unici presidenti che cita e considera alla sua altezza sono George Washington, Ronald Reagan e Abraham Lincoln: soprattutto Lincoln, perché anche a lui hanno sparato; la differenza è che Dio, distratto al momento dell’attentato a Lincoln, a Trump ha voluto salvare la vita.

A questo punto il copione prevede che il candidato, un po’ solenne un po’ sornione, ruoti la testa mostrando alla platea tipo ostensione l’orecchio sinistro, ferito nell’attentato in Michigan: «Vedete? Potrei essere in una delle mie stupende case sulla spiaggia, con la mia bellissima moglie; invece sono qui, a rischiare la vita, a combattere, per voi». Commozione, lunghi applausi. Gli stranieri citati sono solo due: Putin, con cui parlerà appena rieletto; e Orbán, «grande leader ungherese».

Lo show è animato da più comparse. Trump chiama sul palco le nuotatrici della squadra locale – «siete bellissime, ma oggi a dirlo ci si rovina la carriera politica» –, che si battono per non gareggiare contro le transgender, troppo più forti. Lui promette che libererà la scuola da queste ubbìe. Poi c’è il video della madre di Jocelyn, una dodicenne uccisa da immigrati clandestini, che sorride con le lacrime: «Il mio prossimo figlio sarà al sicuro con Donald Trump». Quindi ecco la madre di Kayla, di persona.

Trump assicura con aria affranta che i clandestini arrivati grazie alla Harris sono quasi tutti assassini, stupratori, spacciatori; «al confronto i nostri criminali sono brave persone». Ma con lui le frontiere saranno di nuovo sigillate. Il suo sogno americano non è molto più della fine dell’incubo di Biden-Harris. Chiude quasi afono con la promessa di rendere l’America di nuovo «potente, sicura, orgogliosa, temuta, forte. Grande».

Il pubblico è esausto, ma riconoscente. Il capovolgimento, rispetto a quando i repubblicani erano il partito dell’establishment e i democratici erano i populisti, è ormai totale. Lontano anche il tempo in cui i repubblicani pensavano di tornare alla Casa Bianca con centristi come Romney o «maverick», outsider, come McCain. La svolta radicale era cominciata già con il Tea Party, la rivolta contro il governo e le tasse, cui però mancava un leader. Quel leader è stato trovato in Trump.

Metà America gli ha perdonato di tutto, perché lo ama, mentre l’altra lo considera non senza ragione un vecchio arnese, un disco rotto che ripete sempre la stessa musica. La partita di domani resta apertissima. Ma, comunque vada, tornare indietro, a una destra moderata, liberale, conservatrice, sarà difficilissimo.

Spread the love