di Christian Rocca (linkiesta.it, 23 ottobre 2024)
Non se ne parla più, sembra quasi che si sia trattato di un fatto come un altro, normale e naturale. Ma in realtà è stato un tentato colpo di Stato quello ordito da Donald Trump dopo la sconfitta elettorale del 3 novembre 2020, quando l’allora presidente fu cacciato dalla Casa Bianca da una valanga di voti democratici che hanno temporaneamente salvato l’America, l’Ucraina e l’Europa.
Nonostante l’ampia sconfitta nel Collegio elettorale, oltre che nel voto popolare (7 milioni di voti in meno rispetto al vincitore Joe Biden), Trump ha tentato in tutti i modi di far apparire magicamente i voti che gli servivano per ribaltare per esempio il risultato in Georgia, da artista della truffa quale è. E poi ha cercato di non certificare il conteggio delle schede a livello statale e di minacciare il suo vicepresidente Mike Pence, che si apprestava a legittimare il passaggio di consegne a Washington. Infine, ha scatenato i moti del 6 gennaio 2021, culminati in un assalto armato e violento al Congresso degli Stati Uniti, contro il vicepresidente e i deputati eletti democraticamente, costretti a nascondersi negli scantinati del Campidoglio per evitare il linciaggio a cura di quelli che Trump ancora oggi definisce «patrioti».
Quel giorno ci furono 6 morti, 174 feriti tra le forze dell’ordine e 1.500 persone arrestate. Nei giorni successivi, 4 poliziotti che avevano difeso Capitol Hill si sono suicidati, nelle settimane seguenti 750 manifestanti sono stati condannati, mentre il mandante in chief ha subìto una seconda procedura di impeachment, dopo quella ricevuta per i rapporti con i russi, da cui si è salvato ancora una volta grazie al voto dei suoi senatori, ma forse è il caso di chiamarli con il nome più adeguato al compito che svolgono: camerieri.
Il colpo di Stato antiamericano è fallito e le 200 cause intentate a livello locale e federale per i brogli immaginari sono state ordinatamente rigettate nell’umido della giustizia giusta, ma da quel momento i trumpiani del cosiddetto movimento Maga (Make America Great Again) hanno cominciato a nominare a livello locale funzionari sempre più servizievoli nelle commissioni elettorali, in modo da arrivare preparati alla rivincita questo 5 novembre 2024. Le elezioni presidenziali del 2024 sono la continuazione del colpo di Stato iniziato 4 anni fa, e Joe Biden e il suo Attorney General Merrick Garland hanno la responsabilità di non aver fermato come avrebbero dovuto, con gli schiavettoni, il regista ed esecutore materiale del golpe fallito, nonché l’amico di Putin e il primo presidente antiamericano degli Stati Uniti.
I sondaggi del 5 novembre dicono che Trump potrebbe tornare alla Casa Bianca, al momento è addirittura il favorito, mentre a Mosca preparano vodka, caviale e kompromat per il probabile e tragico sequel di The Americans. Certo, Trump potrebbe anche perdere, ma sia lui sia i suoi sostenitori hanno già annunciato che non accetterebbero una sconfitta, esattamente come non l’hanno accettata quando Trump perse quattro anni fa contro Biden.
I negazionisti trumpiani non accetteranno nessun altro presidente e nessun altro risultato, e questa volta si sono preparati a combattere fin da subito, in modo legale e non, un’eventuale elezione di Kamala Harris. Specie se la vittoria di Harris – se mai ci sarà – secondo i sondaggi è probabile che avverrà di misura, con soli 270 grandi elettori, ovvero con il minimo per essere eletti. Vedremo che cosa succederà il 5 novembre, ma intanto c’è da tremare di fronte alla possibile vittoria di Trump.
La coalizione di Trump è un caravanserraglio politico che mette insieme manovalanza nazista e razzista al servizio di oligarchi della Silicon Valley, di fanatici illiberali della Heritage Foundation, e naturalmente del Cremlino. Gli oligarchi della Silicon Valley sono una strana genìa di reazionari-libertari guidata da maniaci come Elon Musk, Peter Thiel, David Sacks e dal blogger-filosofo antidemocratico Curtis Yarvin, gente che immagina di poter manipolare Trump, anche grazie all’aiuto della loro creatura J.D. Vance, piazzato appositamente nel ticket presidenziale con l’obiettivo dichiarato di certificare l’incompatibilità di libertà e democrazia, e di prendere il posto di Trump, da molti dei suoi burattinai e dei suoi detrattori considerato stanco e in seria difficoltà cognitiva (ieri Bill Gates, esponente di un’altra generazione di oligarchi, ha fatto sapere di aver donato 50 milioni di dollari a un gruppo che sostiene la candidatura di Kamala Harris).
Il mondo della Heritage Foundation, una squallida involuzione rispetto ai fasti intellettuali dell’era Reagan, ha elaborato il famigerato Project 2025, il programma di governo della nuova amministrazione Trump. Un testo talmente radicale che perfino Trump ha dovuto prenderne le distanze, facendo finta di non conoscere gli autori (che, in realtà, sono tutti suoi stretti collaboratori).
Ecco un elenco molto parziale di alcune delle proposte del Project 2025: detenzione ed espulsione forzata di milioni di immigrati senza documenti; revoca dello status legale per mezzo milione di immigrati protetti dal programma Deferred Action for Childhood Arrivals; sospensione delle domande di immigrazione legale per molte categorie; divieto per i cittadini statunitensi di ricevere assistenza abitativa federale se vivono con stranieri, anche se detentori di carta verde; abolizione del Dipartimento dell’Istruzione e di altre agenzie minori; ripristino di una legge del 1872 (Comstock Act) per limitare l’accesso alla contraccezione e alle pillole abortive; riduzione massiccia delle tasse ai milionari e alle aziende; sostituzione del sistema federale fiscale con due aliquote piatte del 15 e del 30 per cento; riduzione delle imposte su plusvalenze, successioni e donazioni; introduzione di una tassa nazionale sui consumi; tariffe («del 1.000 o 2.000 per cento», parole di Trump) sulle importazioni.
In sintesi, la nuova amministrazione Trump demolirebbe il sistema di immigrazione su cui si basano gli Stati Uniti d’America da oltre due secoli, cancellerebbe la proporzionalità della pressione fiscale a vantaggio dei più ricchi e rinchiuderebbe in un protezionismo grottesco il Paese, provocando svantaggi evidenti sulla capacità di acquisto della classe lavoratrice e della classe media. Il tutto, come ha scritto su Liberties Sean Wilentz, uno dei più influenti storici americani, con un linguaggio che, decodificato correttamente, contiene obiettivi legati al nazionalismo cristiano, ancorché invisibili alla maggior parte degli elettori: «Prendiamo un esempio tra i tanti: uno dei passaggi più decisi del progetto afferma che “la pornografia dovrebbe essere vietata. Le persone che la producono e la distribuiscono dovrebbero essere imprigionate. Gli educatori e i bibliotecari pubblici che la diffondono dovrebbero essere classificati come molestatori sessuali registrati. Le aziende di telecomunicazioni e tecnologia che facilitano la sua diffusione dovrebbero essere chiuse”. La maggior parte degli elettori interpreta questo come un appello a eliminare siti come Pornhub, e la proposta potrebbe sembrare problematica soltanto per i difensori del Primo Emendamento. Ma “pornografia” può avere molti significati. Lo speaker della Camera, Mike Johnson, ha descritto l’omosessualità come pornografia. Genitori indignati della Florida hanno chiesto che riproduzioni del David di Michelangelo fossero considerate pornografiche e cancellate dalle lezioni. Gli insegnanti che introducono i loro studenti all’arte rinascimentale saranno quindi registrati come molestatori sessuali? Scrittori, editor e registi che rappresentano temi omosessuali dovranno essere imprigionati? Nel 2024, queste non sono domande irragionevoli».
Eppure, continua il professore di Princeton, queste cose non sono nemmeno le più gravi, perché il cuore di Project 2025 è la radicale trasformazione della struttura delle istituzioni politiche americane, e in particolare della presidenza. Trump pretende di avere, da presidente, il diritto di poter fare qualsiasi cosa voglia fare, come se il presidente degli Stati Uniti fosse un caudillo di una “repubblica delle banane” (Wilentz ricorda che quando Richard Nixon disse quasi la stessa cosa, dopo lo scandalo Watergate – «Beh, quando lo fa il presidente, significa che non è illegale» –, la sua già compromessa reputazione non ebbe più possibilità di riscattarsi).
Il progetto trumpiano prevede anche la trasformazione di 50mila posti di lavoro a Washington in nomine politiche, costringendo gli attuali dipendenti federali a giurare fedeltà assoluta a Trump e alle sue politiche, oppure a perdere il lavoro ed essere sostituiti da militanti del Make America Great Again. «In altre parole» secondo Wilentz, «il Dipartimento di Giustizia, l’Fbi, il Dipartimento del Tesoro e la Federal Reserve opererebbero tutti a discrezione e negli interessi di una sola persona: il presidente, che diventerebbe un duce americano».
O, meglio, un duce antiamericano, come ha ben spiegato anche Anne Applebaum sull’Atlantic qualche giorno fa, ricordando che Trump ripete frasi e slogan di Hitler, Mussolini e Stalin. Un campione del movimento illiberale che, sia pure minoritario, è sempre stato presente nella storia politica americana, come ha raccontato magnificamente Robert Kagan in Insurrezione (appena pubblicato da Linkiesta Books).
Il 5 novembre gli americani sceglieranno tra una tradizionale candidata democratica americana, Kamala Harris, e un micidiale cocktail di manovalanza nazi-razzista, pensiero nichilista degli ex hippie della Silicon Valley, fanatismo illiberale del Project 2025 e influenza russa per sabotare l’alleanza atlantica e il sistema occidentale, miscelato da un artista della truffa pronto a fare il colpo della vita, magari a vita. Questo suggeriscono le sue dichiarazioni, questo pianifica il suo entourage, questo si aspetta il mondo democratico.
Trump, però, è Trump: minaccia anche di incriminare i suoi avversari politici, che definisce «nemici interni» dell’America, ma potrebbe anche non fare niente di tutto ciò, più per pigrizia e per incapacità, o per convenienza, che per un improbabile rinsavimento senile. Ma visti i precedenti osceni, e l’immoralità del personaggio, lo scenario realistico è la fine dell’esperimento americano.