L’indisposizione umana a votare come le star

Ph. Jordan Vonderhaar / Getty Images

(linkiesta.it, 29 ottobre 2024)

È il 1956. Elvis Presley non ha ancora compiuto ventidue minuscoli anni, sta per uscire il film Love me tender, mentre canta sculetta così tanto che Ed Sullivan non lo vuole nel suo programma per famiglie. Finché quello va ospite della concorrenza, vince la serata, e Sullivan – che era abituato a fare il programma più visto d’America, secondo solo a I love Lucy – si arrende. Cinquantamila dollari per tre puntate.

Sia chiaro: lo riprenderanno solo dalla vita in su, è un programma rispettabile. Cinquantamila dollari ben spesi: quelle puntate le vedranno in sessanta milioni di americani. Ma la cosa che ne resta non è Elvis che canta ripreso a mezzo busto. La cosa che ne resta è Elvis dietro le quinte, fotografato mentre gli iniettano il vaccino per la polio. La foto, dicono le cronache, fa passare il tasso di americani vaccinati contro la polio dallo 0,6 all’80 per cento. Oggi, temo produrrebbe soprattutto complottismi social. È un fotomontaggio. L’hanno pagato per inocularsi il siero sperimentale. E, ventun anni dopo: per quello è morto giovane.

Ma questo non è un articolo sulla disposizione dell’umanità a vaccinarsi: è un articolo sulla disposizione dell’umanità a fare quel che le dice la gente famosa. La domanda è: è quella di Elvis e del vaccino per la polio l’ultima volta in cui il pubblico ha seguito le indicazioni d’un famoso? E, se lo è: è una brutta notizia o un segno di maturità?

Kamala in Texas ha fatto salire sul palco Beyoncé. Beyoncé ha fatto il suo discorsino, e mentre ancora mi chiedevo che senso avesse far dire a una cantante “guardate, la voto anch’io”, è arrivata la speculare stupidità repubblicana: hanno attirato le folle promettendo un concerto di Beyoncé, e poi quella non ha cantato. Truffa truffa ambiguità.

Quindi il voto di scambio è questa roba qui: tu mi fai ascoltare Beyoncé gratis e io in cambio ti voto, per la gratitudine di non aver pagato il biglietto per sentire All the single ladies ti delego la responsabilità di governarmi per i prossimi quattro anni. Ma, una volta che ho avuto Beyoncé gratis, tu che garanzia hai che io ti voti? Che mantenga la mia parte del patto? Potrei venire a sentire Beyoncé a scrocco e poi votare Trump, no?

Non ricordo, ma magari sono smemorata, una volta in cui il pubblico e l’elettorato (che sono la stessa roba, specie in questo secolo in cui i prodotti per dodicenni hanno un pubblico di adulti con diritto di voto) abbiano dato retta alla gente famosa – agli attori, ai cantanti, agli stilisti, a quelli di Instagram, ai giornalisti – per decidere per chi votare. Forse il pubblico ha capito istintivamente un concetto con cui i giornalisti fanno una gran fatica: l’artista e l’intellettuale hanno mansioni diverse.

Certo, c’è ogni tanto qualcuno che sa svolgere entrambe le funzioni, ma sono pochissimi: Martin Scorsese, Umberto Eco, Zadie Smith, Martin Amis. Per il resto, che uno sappia cantare o fare un film non mi garantisce che capisca qualcosa del mondo e di come governarlo. Vale a sinistra, dove gli artisti disposti a spendersi in politica sono tantissimi, e i politici che pensano sia risolutivo avere i famosi dalla loro parte un’enormità, e a destra, dove i famosi sono meno. Vale per l’elettorato tutto.

Escludo che la Lega abbia vinto qualche elezione per merito di Davide Van De Sfroos o i Cinquestelle per Claudio Santamaria. Escludo che Silvio Berlusconi abbia preso voti per merito di Iva Zanicchi o di Mike Bongiorno, ma anche che Romano Prodi ne abbia presi per merito di Ivano Fossati (anche se La canzone popolare, come inno elettorale, era certamente meglio della Mi fido di te scelta da Veltroni, una canzone il cui ritornello chiedeva «cosa sei disposto a perdere» – ma neanche questa ubriachissima scelta è bastata a far dire alle sinistre di tutto il mondo che forse è ora di finirla col complesso dei famosi e del pop).

Kamala Harris ha pubblicato un video in cui lei e Barack Obama raggiungono Bruce Springsteen nel retro del palco sul quale lui ha appena dato la sua benedizione alla di lei candidatura (come già l’aveva data a Obama quando vinse e a Hillary quando perse: chi l’avrebbe mai detto, a parità di famosi che ti appoggiano, gli esiti elettorali possono differire). Kamala dice che era in vivavoce col marito, gli ha detto «indovina con chi sono», intendendo il presidente, e quello si è sovreccitato pensando fosse Bruce; Bruce ride, Barack fa il finto modesto: «Non lo interessava né lo eccitava l’ipotesi che ci fossi io: tra Bruce e Michelle e Kamala, mi sento sempre…» – la Harris neanche lo lascia finire di dire «trascurato», perché il giochino è noto. Lo fanno (benissimo) lui e George Clooney: si atteggiano a Calimero essendo evidentemente i più fighi d’ogni stanza in cui si trovino.

Una donna non potrebbe farlo: la rassicurerebbero, le direbbero che deve volersi più bene, scambierebbero l’autostima così ipertrofica da permettersi il lusso dell’autoironia per insicurezza; è questo il vero gender gap, ma ne parliamo un’altra volta. Quel che è interessante ora è: Obama non è un politico, è un famoso. Gioca nel torneo della moglie, che praticamente fa la tiktoker anziana, e di Springsteen, che fa il cantante. Decidete voi se non lo sia più, un politico, o se non lo sia mai stato; io dico la seconda: è sempre stato soprattutto grandemente fotogenico, che è una qualità da star del cinema, mica da tizio che governa.

«Lasci stare Obama: Obama è soltanto per Obama, non ha nemmeno l’influenza di un tempo, vive ormai nella terra delle celebrità e nello show business […], è l’uomo più cool del pianeta, il suo modello di riferimento è Jay Z». Lo diceva ieri sul Foglio, a Paola Peduzzi, Leon Wieseltier, e a me è subito tornata in mente quella vecchia recensione che diceva che il tema del disco di Jay Z era il dramma del capitano del tuo aereo privato che s’è dimenticato il limone per le ostriche.

Mi è tornata in mente quella foto di Obama in motoscafo con George Clooney sul lago di Como, probabilmente di ritorno alla villa di George in cui Barack era ospite. Mi è tornato in mente chi, quando uscì l’editoriale di Clooney sul New York Times, quello in cui invitava Joe Biden a non ricandidarsi, diceva che non esistesse che George avesse scritto una cosa del genere senza mandato del suo amico Barack. Meno ascoltiamo le celebrità, più la politica si fa a mezzo celebrità. Cosa potrà mai andare storto.

Sull’Atlantic, Ellen Cushing ha notato che nessun articolo di giornale (neanche quello di Clooney, dico io) ha fatto discutere quanto l’articolo che non c’è, quello con cui il Washington Post avrebbe dovuto dire ai suoi lettori che candidato appoggiava. Un rituale quasi più inutile che portare Beyoncé a un comizio. Eppure. Eppure i social sono pieni di segnalatori di virtù (compreso il direttore di questo giornale) che notificano al mondo che hanno disdetto l’abbonamento al Washington Post dopo che il giornale ha annunciato il ritorno al silenzio elettorale, alla tradizione pre-anni Ottanta di non appoggiare alcun candidato. Non fatelo, dice Cushing: non togliete soldi a un giornale, semmai toglieteli al proprietario cattivo che ha vietato ai giornalisti di dire ai lettori per chi votare.

Il proprietario cattivo è Jeff Bezos, e quindi Cushing invita a disdire invece l’abbonamento ad Amazon Prime. Si vede che non mi legge, e non sa che ho bisogno di Amazon per il Parmigiano a domicilio. Si vede che non è italiana, e non sa che sta arrivando la seconda stagione di The bad guy, unica ragione per pagare Bezos (a parte il Parmigiano). Nel 2022, dice Cushing, Amazon ha incassato quaranta miliardi (e duecento milioni, scusate se conto gli spicci) di dollari non in vendite di prodotti ma solo in iscrizioni a Prime (a dicembre uscì la prima stagione di The bad guy, sarà sicuramente un indotto economico di Claudia Pandolfi: altro che Beyoncé). È il doppio del fatturato di tutti i giornali americani sommati.

Si stima che negli Stati Uniti dell’Analfabetismo ci siano centottanta milioni di iscrizioni a Prime, e meno di ventun milioni di abbonamenti a quotidiani. La posizione di Cushing, che ho visto articolata da tanti altri intellettuali americani sui social, è ovvia e comprensibile: il Washington Post ha vinto un Pulitzer per aver raccontato il casino combinato dai trumpiani il 6 gennaio del 2021, non punite i giornalisti che vi svelano le malvagità del potere, punite il fantastiliardario cattivo.

Solo che persino l’assalto a Capitol Hill, temo, è ormai diventato la rivoluzione francese che non necessariamente va vista dalla parte dei poveri: si può anche guardare da quella di Lady Oscar. Solo che, se Elvis andasse in tv oggi, lo vedrebbe un centesimo del pubblico di allora, perché la frammentazione, le piattaforme, l’on demand. Solo che, di fronte al mondo nuovo, abbiamo pensato bastasse aggiornare gli strumenti vecchi, e passare da “Elvis, che te la fai una foto mentre ti vaccinano?” a “Beyoncé, che me lo fai un video per nonna? Ti vota sempre!”.

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