L’accanimento contro Chiara Ferragni, la Barnum di questo secolo

Ansa

di Guia Soncini (linkiesta.it, 5 ottobre 2024)

Adesso stai a vedere che riescono a trasformare Chiara Ferragni in un Enzo Tortora. Mettete giù quell’indignazione, non c’è bisogno che mi notifichiate le differenze tra un errore di persona e una che invece è proprio la Ferragni, quella che diceva accattatevill’ (il pandoro) e cureremo i bambini malati: giuro che ho contezza che non sia la stessa dinamica in entrata. Temo però lo stesso effetto in uscita, quello che discende dall’accanimento.

Da quando ieri le agenzie di stampa hanno battuto la notizia che le indagini sul caso Ferragni sono concluse, e che adesso, chissà, forse, potrebbe venire rinviata a giudizio per truffa aggravata, e le sei paginette della Procura di Milano sulla fine delle indagini preliminari venivano sintetizzate in articoletti che, tutti, riportavano il nome del procuratore aggiunto e di quello sostituto, da ieri io penso molto ai primi anni Novanta. Quando cominciò Tangentopoli, un’adulta solitamente non brillante disse una cosa alla quale ripenso da più di trent’anni, sia per la cosa in sé sia perché fu il momento in cui capii che in un’intera vita pure a un fesso può uscire un’ottima battuta (a vent’anni si tende a credere che i geni siano geni anche appena svegli, e i fessi non ne azzecchino mai una).

L’intuizione, cito a memoria, era: questo casino è iniziato perché le mogli dei pm hanno detto ai mariti “tutti vanno in tv tranne te”. Naturalmente il concetto è applicabile a tutto, dai centravanti ai Nobel per la Medicina: chiunque combini qualcosa di notevole lo fa innanzitutto per far colpo su qualcun altro. E ora ditemi: esiste in questo momento in Italia un settore in cui sia più semplice ed efficace farsi belli di quanto lo sia gloriarsi d’aver messo sotto processo la Ferragni? Non è certo col cinema che puoi ottenere un risultato paragonabile, né con la ristorazione o la ricerca medica o l’accensione della telecamera del telefono o la vittoria in Champions. Se processi la Ferragni, invece.

Un pubblico ministero che oggi dicesse “ma cosa diavolo vuoi rinviare a giudizio, massù, ma è una storia ridicola” starebbe tra Bartleby lo scrivano e un frate trappista. Nessuno vuol essere impopolare in nessun settore, figuriamoci: il popolo esige la punizione esemplare per la testimonial dei pandori? E noi saremo quelli che la richiedono formalmente, la punizione esemplare. In nome del popolo italiano. (Sì, alla Procura di Milano scarseggiano gli Ugo Tognazzi, ma d’altra parte non è che a casa Ferragni siano moltissimi i Vittorio Gassman).

Nel 415 bis (il dispositivo che conclude le indagini preliminari si distanzia d’un solo refuso dal 41 bis, l’ergastolo ostativo che l’opinione pubblica parrebbe ritenere congruo per la signora colpevole di lesa bionditudine) oltre alla Ferragni sono citati il suo ex manager, l’industriale dei pandori e quello delle uova di Pasqua – ma di loro non importa niente a nessuno, è la bionda che porta i pm sui giornali, è la bionda che fa fare clic sui nostri titoli. Su Ferragni pasteggiano vari settori, sugli altri nessuno e, quindi, li potrebbero pure assolvere. Il che è bizzarro, se ci pensate.

Quando eravamo sani di mente, a nessuno sarebbe venuto in mente di chiedere la testa di Raffaella Carrà se Scavolini avesse fatto pubblicità ingannevole. Prima di avere tutti il PhD, avevamo tutti abbastanza svegliezza da capire cosa fosse una testimonial e quanto limitate fossero le sue responsabilità. Ora, siccome le bionde, invece di girare uno spot in uno studio televisivo, accendono la telecamera del telefono e parlano a noialtri spostati che ci percepiamo loro amici, esse hanno il dovere di dirci la verità. Ora agli industriali nessuno chiede conto degli enormi cachet per la bionda e delle miserrime donazioni da loro fatte (mille euro al mese più Iva, si legge nel 415 bis, da Dolci Preziosi a “I bambini delle fate”, e a me la beneficenza dà il voltastomaco sempre e la renderei reato universale, ma voialtri che vi ci baloccate, ditemi: non trovate stucchevoli certi nomi?).

Era la bionda quella cui mettevamo i cuoricini su Instagram, epperciò è lei che ci deve onestà, trasparenza, buon cuore e assenza di doppie punte: è lei che deve badare a che i bambini malati guariscano e prosperino (“bambini oncologici” ha preso il posto, nei tic lessicali social, di “radical chic”, o forse di “genocidio”: vengono scanditi con la stessa voluttà analfabeta, con lo stesso piglio cieco). Per quattro volte in sei pagine la magistratura inquirente parla di «artifizi e raggiri», e io cercherò di non distrarmi, di non invocare Calvino (che si starà rivoltando nella tomba), di non chiedermi che ottimismo si possa mai avere rispetto a un Paese i cui laureati scrivono “artifizi”. Cercherò invece di concentrarmi su ciò che già si vedeva, a saper guardare.

Ricopio da L’economia del sé, certa che i lettori di questo articolo non siano tra i quattordici italiani che due anni e mezzo fa comprarono il mio libro più invenduto. Pagina 102. «Chiara Ferragni è, prima di tutto il resto, il Phineas Taylor Barnum del nostro secolo. Sì, il Barnum del circo, ma anche il Barnum di molte altre cose. […] Quello che comprò un museo non per mecenatismo ma perché gli interessava “far soldi in fretta”. Quello che in quel museo espose una sirena impagliata, e illuse tre giornali d’avere l’esclusiva sulla notizia della sirena (era il 1842, se vi state interrogando sul declino della stampa e lo zelo nelle verifiche). Quello che per primo capì che il pubblico non vuole la verità: vuol essere intrattenuto. Quello che dopo aver fatto bancarotta riuscì a rifare soldi facendosi pagare per tenere lezioni su come costruirsi un patrimonio».

Era accaduto che, nel 2018, dopo un piccolo inciampo reputazionale, la Ferragni avesse dato prova di grande abilità nel deviare l’attenzione. Era stato per quella dote da prestigiatore che mi era venuto in mente Barnum, che due secoli prima era stato la Ferragni d’America. «Quello che aveva tutto da insegnarci anche sulle buone cause. La sua carriera cominciò comprando, e mettendo in esposizione per spettatori paganti, una donna cieca e paralizzata che dichiarava d’avere centosessantun anni e d’essere stata la balia di George Washington. Quando percepì una qualche renitenza di fronte al pagare il biglietto per vedere un caso umano, Barnum ebbe il guizzo che l’avrebbe fatto salire nella classifica di popolarità: disse che i soldi servivano a emancipare dalla schiavitù i pronipoti della donna. I giornali scrissero che era indecente, e lui – quando la donna morì – vendette millecinquecento biglietti per la sua autopsia: chi ride ultimo?».

Non serve un dottorato in Sociologia dei processi culturali per cogliere la differenza tra lo scandaletto da cui Chiara riuscì a deviare l’attenzione sei anni fa, e gli ultimi dieci mesi d’accanimento: qui c’è “i bambini oncologiciiii” da strillare alla bionda di cui il popolo italiano ha già deciso la colpevolezza. Quando Barnum vendette i biglietti per l’autopsia della bàlia centosessantunenne di Washington, la stampa ipotizzò che il cadavere non fosse mica il suo, che lei fosse ancora viva (e forse centosessantaduenne, a quel punto). Lui fece quel che avrebbe dovuto fare la Ferragni – se solo non gliel’avessero impedito il carattere, l’immagine, il talento o la mancanza dello stesso – e comunque Barnum era avvantaggiato: non viveva nell’epoca dei like.

Fatto sta che lui si poté concedere il lusso di gongolare: «Continuano a parlare di me». Barnum era l’inventore di quello slogan che dice che non esiste la pubblicità negativa. Ferragni in questi dieci mesi è diventata un case study su come la pubblicità negativa possa stritolarti molto oltre i tuoi demeriti. Mi cito addosso un altro po’, abbiate pazienza, queste righe qui direi che in due anni e mezzo son scadute: «Dai circensi, Chiara ha imparato a distogliere l’attenzione. Come i prestigiatori, sa che basta distrarci indicando l’errore altrui dall’altra parte della sala, per far scomparire il proprio». Non lo sa più fare. In compenso, il resto del mondo ha imparato.

Adesso possiamo fare ore di ritardo ogni volta che prendiamo un treno, pagare tasse per servizi che non riceviamo, avere una sanità pubblica talmente conciata che presto la beneficenza ci servirà davvero. Ma nulla importa, perché siamo concentrati a sperare che la bionda di cui compravamo come imbecilli lo zucchero a velo rosa paghi il fatto che la nostra imbecillità è stata svelata. Anzi guarda, fammi andare a cercare lo scontrino di quel pandoro di due anni fa, voglio proprio costituirmi parte civile e riavere indietro i miei tre euro. Poi, tra trent’anni, guarderò il documentario sull’accanimento giudiziario su una tizia dimenticata, e scuoterò la testa: erano pazzi, in quegli anni Venti.

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