di Marco Ballestracci (ilfoglio.it, 20 maggio 2024)
Capita che ci siano degli anni – uno ogni quattro per la precisione, e guarda caso il 2024 è uno di questi – in cui il mondo trepida per ciò che accadrà a novembre, perché il popolo degli Stati Uniti elegge il proprio presidente. È consuetudine proseguire dicendo che il presidente degli Stati Uniti d’America è l’uomo più potente del mondo, da cui discende per semplice deduzione che pure gli Stati Uniti sono la nazione più potente del mondo.
Tuttavia io rimango sempre un poco sconcertato da quest’ultima considerazione, nel senso che, dopo così tanto tempo, non riesco a togliermi dalla testa la sensazione che riportai in Italia dopo il mio primo soggiorno negli Usa, luogo in cui finalmente mi recai per la mia viscerale passione per tutto ciò che è americano, con particolare riferimento al cinema, alla letteratura e alla musica. Lo sconcerto deriva dal fatto che rimasi molto colpito dall’ingenuità, termine migliore non riesco a trovare, che così spesso riscontravo nelle persone in quel primo viaggio negli Stati Uniti. È evidente che non mi recai nelle grandi città del Nord-Est o del Sud-Ovest, ma bazzicai le strade secondarie (d’altro canto avevo terminato di leggere Strade blu di William Least Heat-Moon) del Sud e del Midwest americano.
Nonostante vagassi per città poco note – Baton Rouge, Louisville, Little Rock (Arkansas) – erano pur sempre località piuttosto popolose, tanto che non potevo immaginare una così scarsa conoscenza del mondo – ingenuità, appunto – ivi compresa la frequente estraneità per dei luoghi famosi che erano nelle immediate vicinanze: la casa di William Faulkner a Oxford, Mississippi, o quella ancora più celebre di Mark Twain, a Hannibal, Missouri (con il famoso steccato bianco che Tom Sawyer, con uno dei più grandi colpi di genio della letteratura, fece ridipingere agli amici). Insomma, quel tipo di stupore che mi fece pensare: “Ma è possibile che questa gente componga davvero la nazione più potente del mondo?”.
Ogni volta che la domanda si ripropone è inevitabile che io mi affidi a un musicista che pare godersela moltissimo a rivelare le debolezze e le idiosincrasie delle persone che popolano, appunto, la nazione più potente della terra. Tuttavia Randy Newman non è affatto un provocatore americano, della medesima schiatta di Frank Zappa o Jim Morrison: delle autentiche pietre dello scandalo. Niente affatto: è un tipo che si è sempre vestito con una certa eleganza, sovente un tantino abbronzato, ed è un compositore con tutti gli studi in regola, con lo spartito di Schubert sempre pronto sul pianoforte, nonché vincitore di un paio di Oscar per la migliore canzone originale.
Solo che, di tanto in tanto, si diletta a scrivere canzoni come Short People, che quando uscì nel 1977 stupì talmente gli ascoltatori americani da diventare una hit di Billboard. “Le persone basse non hanno nessuna ragione per vivere / Hanno gambe piccole e stanno così in basso che devi tirarle su anche solo per salutarle / Hanno piccole automobili e anche piccole voci che fanno beep, beep, beep! / Hanno piccole dita che arraffano e piccole menti diaboliche / Cercano sempre di fregarti / Non voglio intorno a me persone basse / Niente affatto / Non voglio intorno a me persone basse”.
Insomma Randy Newman popola i suoi dischi di persone strane, con delle esistenze altrettanto curiose, fino a essere così tanto strampalate da autorizzare qualsiasi ascoltatore a porsi la mia medesima questione: “Ma davvero questi tizi, presi uno alla volta, compongono la nazione più potente del mondo?”. È inevitabile che, in attesa del prossimo novembre elettorale, io trovi nuovamente rifugio nelle canzoni di Randy Newman, perché, come tutti sanno, a giocarsi il titolo di “uomo più potente della terra” saranno, praticamente senza alcun contraddittorio nei rispettivi schieramenti politici, Joe Biden e Donald Trump.
Circostanza che potrebbe gettare nello sconforto anche alcuni di quelli che, in fin dei conti, continuano a considerare gli Stati Uniti i fabbricanti dell’imminente futuro, esattamente come si addice alla “nazione più potente del mondo”. Così, alla fine, come si diceva, si torna sconsolati alle canzoni di Randy Newman: a qualche suo Greatest Hits, o ad album come Little Criminals e Good Old Boys. Allora si passa dalla struggente e intensissima Louisiana 1927 a You can leave your hat on, la canzone del famoso striptease di Kim Basinger in 9 settimane e ½ (che è di Randy Newman e non di Joe Cocker), per poi finire tra le braccia di Rednecks, un brano che, come consuetudine dell’artista, tende a canzonare i reazionari del Sud (ma non solo del Sud) – i “colli rossi”, appunto – che perdurano nel loro radicatissimo razzismo.
Tuttavia, se si scruta con più attenzione ogni canzone di questo artista, cioè se si gratta la superficie, si possono scoprire squarci incredibili di americanità. Così Rednecks è un autentico bignami storiografico del Sud degli Stati Uniti d’America. Il testo, l’afferma lo stesso autore, è ispirato a una trasmissione televisiva – il Dick Cavett Show [del 18 dicembre 1970 – N.d.C.] – in cui un georgiano di nome Lester Maddox venne fischiato dagli spettatori dello studio per via delle sue posizioni apertamente segregazioniste. D’altro canto Maddox era il perfetto esempio di redneck, infatti era diventato famoso nel 1965 perché nella sua caffetteria di Atlanta si rifiutava di servire i clienti di colore, appellandosi alla libertà del gestore di “servire solo i georgiani che apparivano presentabili ai suoi occhi”.
Sarebbe stato un semplice caso di arretratezza intellettiva – “redneck” significa soprattutto questo –, come quelli che vengono testimoniati nei numerosi libri e film che si occupano di vicende di razzismo, se non fosse per la curiosa circostanza che Lester Maddox, anche al momento della trasmissione televisiva in cui veniva dileggiato, era il governatore in carica della Georgia, tra l’altro eletto solo due anni dopo che era stato al centro dell’imbarazzante querelle segregazionista. Tuttavia ciò che stupisce davvero un italiano medio è che Lester Maddox apparteneva al Partito Democratico, tanto da svolgere successivamente il ruolo di vicegovernatore di Jimmy Carter quando quest’ultimo – visto che la Costituzione della Georgia prevedeva un solo mandato in carica – gli succedette nel 1971.
Ma non si trattava affatto di un’evidenza strabiliante, di una peculiare combinazione politica locale, visto che nello Stato accanto, l’Alabama, il Partito Democratico poteva vantare, nel medesimo periodo, come esponente di maggior spicco George Wallace: l’uomo che nel 1963, nel discorso d’insediamento per il suo primo mandato di governatore dello Stato sentenziò “Io dico segregazione ora, segregazione domani, segregazione sempre!”, e che intervenne per impedire che due studenti di colore frequentassero l’Università dell’Alabama, nonché condivise la decisione dello sceriffo di Selma di caricare il corteo della prima marcia per i diritti civili, mentre i dimostranti attraversavano l’Edmund Pettus Bridge.
È davvero incredibile immaginare personaggi come Lester Maddox e George Wallace che in una convention del Partito Democratico lanciano la propria candidatura per correre nelle primarie, così da contendere la nomina a Lyndon Johnson (in quanto vicepresidente e successore di John Fitzgerald Kennedy, anche se Wallace aveva annunciato la propria candidatura prima dell’omicidio di Dallas) oppure a Jimmy Carter quali candidati alle presidenziali. Eppure questo è ciò che è accaduto veramente, perché tutti gli Stati del Sud sono stati governati quasi sempre dai democratici, perché erano proprio i democratici a sostenere i valori della segregazione, visto che l’uomo che aveva fatto l’impossibile per approvare il XIII emendamento alla Costituzione americana, la norma che aboliva la schiavitù, Abraham Lincoln, apparteneva al Partito repubblicano.
Il segnale che quel peccato originale poteva essere finalmente dimenticato lo diede Jimmy Carter nel giorno del suo insediamento a governatore della Georgia, il 12 gennaio 1971, quando nel suo discorso disse: “Il tempo della discriminazione razziale è definitivamente terminato”. Nell’ascoltare quelle parole, le facce di chi l’aveva sostenuto durante la campagna elettorale si rabbuiarono e in quell’istante nelle teste dei redneck fecero capolino le parole: “Maledetto traditore!”. È stato proprio in quel frangente che i segregazionisti come Maddox cominciarono a pensare che nel Partito Repubblicano ci si potesse dimenticare del gesto di Lincoln. Così, pian pianino, uno alla volta, sulla carta geografica del Sud, tutti gli Stati blu (cioè Democratici) sono diventati rossi (cioè Repubblicani).
Ma al di là del dipanarsi della storia degli Stati del Sud, è davvero sorprendente che tutta questa vicenda, cominciata con Lincoln, proseguita con Carter e giunta sino a oggi, sia alla fine racchiusa in un paio di canzoni incluse in un brevissimo album di Randy Newman: Good Old Boys, che significa più o meno Vecchi buontemponi. Dentro quelle canzoni – Kingfish e Rednecks –, in neanche sei minuti di musica, c’è buona parte della storia del Sud segregazionista e democratico. Nei poco meno dei tre minuti di Kingfish c’è tutto il carattere pirotecnico e baldanzoso di Huey P. Long, il governatore della Louisiana pistolettato a morte nel 1935 e protagonista per interposta persona – gli viene attribuito lo pseudonimo di Willie Talos – del grandissimo libro di Robert Penn Warren Tutti gli uomini del re, pubblicato in Italia da Feltrinelli e 66thand2nd (nel senso che le due case editrici hanno deciso di pubblicarlo insieme).
Ma è soprattutto Rednecks che colpisce duro, più o meno come le affermazioni di Lester Maddox al Dick Cavett Show. È un brano del 1974 ma che, come tutte le grandi canzoni, dà l’impressione di essere stata scritta solo un paio di giorni fa, con una certa apprensione rivolta a ciò che accadrà dopo il 5 novembre 2024. “Certo, parliamo con uno strano accento quaggiù / Certo, beviamo troppo e facciamo troppo casino / Certo, siamo troppo stupidi per stare in una città del Nord / Però noi sappiamo tenere i negri al loro posto / Certo, siamo bifolchi (“rednecks”) / Certo, siamo bifolchi / Non distinguiamo il nostro culo da un buco nel terreno / Certo, siamo bifolchi, proprio bifolchi / Però noi sappiamo tenere i negri al loro posto”.