La tensione tra Cina e Taiwan si vede anche nelle serie tv

Ph. Wim van ’t Einde / Unsplash

di Lorenzo Lamperti (linkiesta.it, 28 settembre 2024)

Un soldato in divisa esprime rammarico per l’attuale separazione e auspica la «riunificazione nazionale». Poi appaiono droni ed elicotteri che si fanno strada tra la resistenza rivale, portata avanti da missili antiaerei simili a quelli prodotti dagli Stati Uniti. Inizia così il sesto episodio di Quenching, una serie prodotta dalla China Central Television, il broadcaster di Stato in Cina. In venti minuti viene messa in scena un’ipotetica azione militare per «salvaguardare la sicurezza nazionale» e «salvare Taiwan dalle minacce di secessione e interferenze esterne».

Si tratta di un salto di qualità comunicativo da parte di Pechino nei confronti di Taiwan, che arriva non a caso a distanza di un paio di mesi dalla pubblicazione dei diciassette minuti del teaser di Zero Day, la prima serie televisiva prodotta da Taiwan che racconta in modo realistico una possibile invasione dell’Esercito popolare di liberazione. Le due sponde dello Stretto oltrepassano dunque nello stesso momento uno dei loro tabù, quello di far vedere come potrebbe essere un conflitto militare, rendendolo allo stesso tempo meno lontano da concepire per le rispettive opinioni pubbliche.

Certo, per la retorica del Partito Comunista non è una novità quella di prevedere anche l’utilizzo della forza per risolvere la questione taiwanese alla sua maniera, anche se si continua a dare enfasi all’obiettivo storico della «riunificazione pacifica». Ammesso che sia possibile: è sempre più difficile da immaginare, con la democratizzazione di Taiwan e ancora di più dopo il «prepensionamento» dell’autonomia di Hong Kong e del suo modello «un Paese, due sistemi», che la leadership cinese immagina sin dai tempi di Deng Xiaoping di applicare anche a Taipei. Eppure, Quenching rappresenta l’attuale culmine della svolta comunicativa cinese, che negli scorsi anni ha vissuto altri momenti significativi.

Qualche esempio? Le grafiche sui media che mostrano i possibili attacchi a fuoco vivo contro Taiwan, in concomitanza dei vari round di ampie esercitazioni inaugurate con la visita di Nancy Pelosi a Taipei dell’agosto del 2022. Proprio in quella circostanza, sull’agenzia di stampa statale Xinhua venne pubblicata la foto di un soldato cinese che osservava con un binocolo le coste taiwanesi da distanza apparentemente ravvicinata. In quell’occasione, il governo taiwanese smentì la veridicità dell’immagine, sostenendo si trattasse di un esempio di «guerra psicologica». Pur sfiorandola, ufficialmente sinora jet e navi di Pechino non avrebbero mai varcato il limite delle ventiquattro miglia nautiche dalle coste dell’isola principale di Taiwan, che segna l’ingresso nelle cosiddette acque contigue.

Mettere in mostra l’ipotetica azione militare sullo Stretto alla tv di Stato ha due obiettivi. Primo: rassicurare l’opinione pubblica della Cina continentale sulla preparazione dell’Esercito popolare di liberazione (che nel 2027 celebrerà il suo centesimo anniversario) nell’entrare in azione. A maggior ragione in un momento in cui il Partito sta anche provando a tenere sotto controllo le aspettative delle frange più nazionaliste. In tal senso va interpretata la voce secondo cui Xi Jinping avrebbe detto a Ursula von der Leyen che gli Stati Uniti vogliono spingere la Cina a un attacco. Indiscrezione non confermata, ma su cui sono state costruite trasmissioni televisive cinesi in cui si sottolineava la necessità di «non cadere nella trappola» americana e dunque di non agire prima del tempo.

Il secondo obiettivo dell’episodio di Quenching è avvisare i taiwanesi dei pericoli legati al permanere del Partito Progressista Democratico (Dpp) al potere, se questo non accetterà il controverso e limitante Consenso del 1992 – un accordo firmato da rappresentanti del Partito Comunista cinese e del Kuomintang (attualmente all’opposizione a Taiwan) che riconosce l’esistenza di un’«unica Cina». In più, come detto, Quenching sembra rispondere direttamente a Zero Day. La serie taiwanese, la cui uscita è prevista nella primavera del 2025, si allinea perfettamente alle esigenze retoriche del governo di Taipei.

Tra i finanziatori figura Robert Tsao, ex magnate dei microchip, protagonista di una storia avventurosa: fuggito da Taiwan per evitare un processo che lo accusava di aver trasferito tecnologia sensibile in Cina, fu celebrato a lungo nella Cina continentale e fu persino protagonista di un documentario della Cctv. Nell’estate del 2022, però, è tornato a Taiwan dopo un lungo esilio a Singapore, riapparendo in conferenza stampa con giubbotto antiproiettile ed elmetto per annunciare l’elargizione di una considerevole cifra per sostenere la difesa di Taipei.

Ma dietro Zero Day ci sono anche i fondi del ministero della Cultura. E non è un caso che il teaser sia stato strategicamente diffuso proprio durante le annuali esercitazioni Han Kuang di luglio, quest’anno mirate ad alzare la consapevolezza dei taiwanesi di fronte ai possibili rischi militari. Per Taipei, il tema è estremamente delicato. Per decenni, il governo taiwanese ha sempre istruito i media a non amplificare i rischi. Questo per tre ragioni: non creare il panico tra i cittadini, non dare l’impressione che l’esecutivo non fosse in grado di difendere Taiwan, non favorire dubbi per le aziende internazionali sull’opportunità di investire sull’isola.

Il lancio di questa serie rappresenta un cambiamento significativo nel metodo di comunicazione, dettato non solo dalla preoccupazione di una sottovalutazione eccessiva dei rischi da parte della popolazione, ma anche dalle pressanti richieste degli Stati Uniti di aumentare la prontezza a difendersi. In tal senso va letta l’estensione della leva militare obbligatoria maschile, da poco passata da quattro a dodici mesi. Ma anche l’istituzione di un comitato per la difesa civile, la cui prima riunione è stata presieduta dal presidente Lai Ching-te il 26 settembre.

Il leader taiwanese, definito un «secessionista radicale» da Pechino, ha una retorica più forte della precedente presidente Tsai Ing-wen. Sul tema della sovranità, nei suoi vari discorsi sta diluendo il perimetro lessicale-formale della Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan, retaggio della guerra civile cinese) in una visione più marcatamente taiwanese, lavorando sul senso di alterità rispetto alla Cina, non solo sul fronte politico ma anche storico-identitario.

La formazione del comitato per la difesa civile è stata una delle prime azioni di Lai in veste di leader, motivando la decisione con la necessità di costruire «una forte volontà di autodifesa» per «rispondere efficacemente a vari disastri e rischi». L’organismo è chiamato a discutere i modi per addestrare e utilizzare le risorse civili e mantenere in funzione le strutture energetiche chiave e le infrastrutture critiche in caso di crisi, così come la sicurezza delle reti informative, di trasporto e finanziarie. Si studiano anche piani per fornire assistenza medica e gestire eventuali evacuazioni.

Tutti temi affrontati in Zero Day, come mostrano i diciassette minuti di teaser, che propone una successione di eventi volutamente inquietanti per i taiwanesi. Prima, un jet cinese transita nello spazio di difesa aerea di Taiwan per poi scomparire nel Mar Cinese Meridionale. Pechino annuncia immediatamente una zona d’interdizione aerea e navale per avviare una missione di ricerca e soccorso. In un attimo, la zona d’interdizione diventa blocco navale esteso intorno all’isola. A Taiwan non arrivano più approvvigionamenti dall’esterno. Niente energia, niente cibo. I sistemi finanziari e informativi vanno in tilt. Nelle strade si attiva una quinta colonna pro riunificazione, che inizia a dettare la propria legge, andando a caccia dei presunti pro indipendentisti.

La serie è peraltro diventata rapidamente un caso. Secondo alcune voci, alcuni attori e attrici avrebbero rifiutato l’offerta di partecipare al progetto per il timore di perdere la possibilità di lavorare nel mercato cinematografico della Repubblica Popolare. Anche alcuni luoghi dove si sarebbero dovute girare delle scene avrebbero preferito evitare di apparire. Non sorprende, visto che la pressione di Pechino sui taiwanesi per prendere posizione politica sta diventando sempre più forte. Sia sui protagonisti del mondo dell’intrattenimento, sia sui grandi imprenditori con interesse al di qua dello Stretto.

Si amplia anche l’arsenale normativo. A giugno, è stata rilasciata congiuntamente una nuova direttiva dalla Corte Suprema del Popolo, dalla Procura Suprema del Popolo e dai ministeri della Pubblica sicurezza, della Sicurezza dello Stato e della Giustizia. Il testo chiarisce che i «secessionisti irriducibili» taiwanesi possono essere condannati a morte nei casi più estremi. La direttiva s’innesta sulla legge anti-secessione del 2005, ma per la prima volta si rivolge direttamente agli «indipendentisti taiwanesi», mentre precedentemente riguardava i «separatisti» in maniera più generica.

I realizzatori di Zero Day hanno parzialmente smussato l’approccio «documentarista» della serie. «Abbiamo parlato con la marina militare della nostra sceneggiatura, ma nello scrivere siamo stati indipendenti», ha detto in un incontro pubblico Lo Gong-zim, uno dei registi della serie, negando più volte che si tratti di un «lavoro di propaganda». I produttori hanno citato la necessità di colmare un vuoto su un tema così rilevante, ma sottolineando che la stessa cosa accade da diversi anni in Corea del Sud, dove sono stati girati molteplici film e serie su un’ipotetica guerra con la Corea del Nord. Insomma, per ora è finzione. Ma le rispettive serie mostrano che a Pechino e Taipei un ipotetico scontro non è più così impensabile.

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