di Paola Piacenza (iodonna.it, 29 agosto 2024)
Un po’ ridicolo l’esercizio di chi si affanna ad attribuire a destra o a sinistra le scelte della selezione. In che scatola mettere Riefenstahl, il documentario sulla “regista di Hitler” del tedesco Andres Veiel? Nella scatola dei film da vedere (se, come ci auguriamo, troverà una distribuzione italiana) perché è un film bellissimo, che contiene materiali preziosi e perché è un film che serve.
Serve a comprendere una parabola unica, quella di una donna nata nel 1902 a Berlino, ballerina, attrice, poi regista di opere che furono anche di propaganda (Il trionfo della volontà, Olympia) per il Terzo Reich, fotografa, ma soprattutto straordinaria manipolatrice. La ricerca che fa Veiel – studi di Psicologia e corsi di cinema con Krzysztof Kieślowski – porta allo scoperto filmati e moltissimi audio (Riefenstahl registrava maniacalmente tutte le conversazioni telefoniche che aveva con i fan e i detrattori, soprattutto i fan…), e ricostruisce una storia tragicamente coincidente con quella del Novecento (Riefenstahl morì a 101 anni nel 2003) e che cercò abilmente (ma non sempre con successo) di cambiare l’immagine della propria.
Dopo la fine della guerra Riefenstahl si adoperò con ogni mezzo per forgiare ex novo il proprio passato, negando di aver aderito al nazismo o, quando messa alle strette, minimizzando la propria responsabilità («eravamo tutti nazisti in Germania» ripeterà durante un’intervista televisiva). E reinventandosi, infine, come documentarista e fotografa (negli anni Sessanta, in Africa, presso i Nuba del Sudan). Del resto, durante la fase della denazificazione in Germania venne processata quattro volte e sempre assolta.
La motivazione? Non aveva direttamente partecipato alle attività volte allo sterminio (anzi, Riefenstahl sosterrà di non esserne mai stata neppure a conoscenza, e di aver appreso della “soluzione finale”, solo alla fine della guerra). Il documentario passato oggi a Venezia fuori concorso mostra invece come fosse a conoscenza della decisione del Reich di sterminare gli ebrei e anche come, almeno in una occasione, sia stata la causa diretta di un eccidio.
Una delle conversazioni registrate svela poi come continuasse a intrattenere rapporti con l’architetto del Reich Albert Speer, che, a differenza della Riefenstahl, si fece vent’anni di carcere. Quando ne uscì, finì anche lui, come tutti, santi e peccatori, nei salotti televisivi. Riefenstahl in una occasione gli chiede quanto si facesse dare per le ospitate, lui risponde citando una cifra abbastanza modesta. Lei ribatte che per meno di 5mila dollari non si muove di casa. Straordinaria capacità di amministrare la propria immagine, tutt’altro che limpida nonostante gli sforzi.
Ma quello che dolorosamente colpisce nel film e nella storia di Leni Riefenstahl è la portata del suo talento, messo al servizio della peggiore delle cause e della più atroce delle macchine propagandistiche. In una scena in cui la regista è alla moviola di Olympia, spiega con eccitazione a chi la sta filmando quali fossero state al tempo le decisioni prese per realizzare le riprese più spettacolari del film, le parate riprese dall’alto a bordo di un piccolo aeroplano, i movimenti di macchina per accompagnare il flusso della folla. Bellissimi, impeccabili, innovativi per il tempo. Lo vediamo noi adesso. Ma lei, purtroppo, l’ha sempre saputo.