di Alfredo Toriello (vanityfair.it, 21 agosto 2024)
Se pensate che anche i più piccoli dettagli possano essere dettati dal caso, dal destino o da una fortuita coincidenza ricredetevi, perché nelle elezioni americane non c’è spazio per tutto questo. Soprattutto per Kamala Harris, la candidata ufficiale dei Democratici alla Presidenza degli Stati Uniti. Un discorso che vale per le dichiarazioni e gli appuntamenti istituzionali, ma anche per l’immagine pubblica di un candidato e che indissolubilmente si lega a ciò che vuol trasmettere al proprio elettorato.
Dunque l’outfit vuole la sua parte e la cura minuziosa dello stile è quanto mai necessaria, com’è stato dimostrato alla Democratic National Convention (Dnc), dove la Vicepresidente di Joe Biden è stata ufficializzata come candidata per concorrere contro il Repubblicano Donald Trump. Si parla tanto dell’assemblea e non solo per i grandi volti del Democratic Party che sono saliti sul palco, da Hilary Clinton a Michelle Obama fino a Joe e Jill Biden, ma anche per il look sfoggiato da Kamala Harris, ossia il completo beige scuro griffato Chloé, l’ormai celebre tan suit indossato in quello che – almeno per il momento – è uno degli appuntamenti più delicati della sua storia politica.
Negli anni lo stile di Kamala si è affinato e le sue apparizioni – almeno la maggior parte – sono state all’insegna del power suit giacca e pantaloni. Quindi, di primo acchito, non ci sarebbe da stupirsi di quel completo sfoggiato sul palco a Chicago, in Illinois. Ma quel colore particolare (e, va detto, a lei molto donante) apre a tante, tantissime interpretazioni.
La particolare scelta dell’ex procuratrice statunitense ha catturato l’attenzione della giornalista di moda Vanessa Friedman, che ne ha lungamente parlato in un articolo del New York Times. Come scrive, la nuance è poco convenzionale rispetto a quanto ci ha abituati la scena politica americana: «Dopotutto, ci sono pochi indumenti che hanno meno probabilità di apparire agli eventi pubblici che sono le principali convention presidenziali dei partiti. Il dress code usuale è quello rosso, bianco e blu: completi e cravatte, vestiti, tailleur».
Il punto qui è il patriottismo (attraverso look dai colori che richiamando la bandiera a stelle e strisce degli Stati Uniti), un tema che fa parte di una narrazione sentita a più riprese, a tratti stantia, e dalla quale Harris vuole evidentemente prendere le distanze. Lei (59 anni) è la giovane che sfida il passato rappresentato dal suo rivale di 78 anni e reiterare le formule del passato rischierebbe d’indebolire quella ventata di freschezza che vuole portare dopo il passo indietro di Joe Biden (81 anni).
Non è solo un cambio di rotta, perché Kamala si fa carico anche di un precedente capace di accendere un’accesa querelle, quella che investì Barack Obama durante il suo incarico da Presidente degli Stati Uniti. «L’ultima volta che un abito di questo colore ha fatto scalpore politico era anche fine agosto, e la persona che lo indossava era il presidente Barack Obama» ricorda ancora Vanessa Friedman. «L’occasione era una conferenza stampa su Iraq e Siria, ma la risposta di una larga fetta del pubblico che guardava è stata shock! orrore! per l’abito».
Tra i commenti allora più sagaci ci fu quello in cui venne cambiato il motto della campagna di Obama da «Yes We Can» in «Yes We Tan». Ironia a parte, fu anche motivo di aspra critica da parte del Partito Repubblicano, che ritenne la nuance, unita al delicato tema del terrorismo, come «non presidenziale» e addirittura come «una metafora della sua mancanza di serietà». Tuttavia molteplici fonti di informazione fecero notare come anche altri presidenti degli Stati Uniti avessero indossato completi color cammello, non ultimo Ronald Regan.
La questione del tan suit di Obama si risolse nel migliore dei modi per il Dem, diventando addirittura un argomento su cui scherzare, ma il precedente avrebbe potuto bruciare sul nascere Kamala Harris, come sottolinea ancora una volta Vanessa Friedman: «Niente di tutto ciò poteva sfuggirle. Se stava raccogliendo il testimone del tan suit e correndo con esso, c’era molto probabilmente un motivo». E quale allora? «L’interpretazione generale è che la Harris stesse prendendo in giro in modo sottile l’orrore conservatore del passato per il tailleur marrone chiaro».
E non solo: in molti, infatti, lo hanno visto come un modo, velato, per trollare in anticipo la capacità di The Donald e dei suoi sostenitori di appigliarsi su qualunque argomento per spostare il focus dell’attenzione generale da questioni politiche a qualcosa di più “frivolo” come, per l’appunto, un abito. Insomma un modo per precedere gli sfottò del tycoon, una delle sue armi più pericolose.
«L’idea che il tailleur fosse una frecciatina ai suoi avversari potrebbe essere vera o meno, ma rafforza la narrazione sulla personalità di Harris, la sua abilità con i meme e la sua credibilità generale nella cultura pop», sottolinea Vanessa Friedman. Sui social è innegabile che ci si giochi tanti, tantissimi voti. La neocandidata Democratica lo sa ed è abile a sfruttarli a suo favore, proprio come (ancora una volta) fece Barak Obama nella sua campagna presidenziale del 2008.
Insomma, i collegamenti fra i due sono molteplici per una candidatura che è già storica: la prima donna di colore e la prima donna di origine sud-asiatica a diventare una candidata di un partito importante per la presidenza. Se quello di Kamala Harris sarà un trionfo è tutto da vedere, eppure la partenza è già un successo per svariati aspetti.