Il miglior lessico elementare e la società sognatrice di massa

Giorgia Meloni via X

di Guia Soncini (linkiesta.it, 3 agosto 2024)

E se uno dei problemi fosse che il Grande Indifferenziato riguarda anche il lessico? Se uno dei problemi fosse che è ormai impossibile distinguere Temptation Island dai ruoli di governo, la classe dirigente dai gruppi di mamme su Facebook, sentendone parlare i protagonisti? Certo, diranno i miei piccoli lettori, è la società dello spettacolo, tutti vogliono prendere gli stessi cuoricini, avere lo stesso consenso, ambire senza faticare, l’hai capito oggi, ben alzata. Sì, ma io parlo delle parole, mica delle azioni.

Tutti si sono concentrati sulla pugile che dice che in Giorgia Meloni ha visto una mamma, ma io di quel minuto d’intervista al Tg1 ho notato soprattutto un altro dettaglio. La presidente del Consiglio, dice l’atleta, le ha detto di continuare a credere nei suoi sogni. Come fosse una concorrente eliminata da Amici. Come fosse una con più ambizioni che talenti che su TikTok racconta d’essere stata scartata a un provino perché le altre son tutte raccomandate. Come la frase precedente fosse stata «per te miss Italia finisce qui», avversativa, continua a crederci, riprovaci, non ti arrendere.

«Continua a credere nei tuoi sogni» è la frase perfetta per Giorgia Meloni, perché Giorgia Meloni è, l’ho scritto un milione di volte ma ormai mi ripeto come i nostri nonni con gli aneddoti di guerra, la più influencer delle influencer, la più sestessista del mercato del sé di cui facciamo tutti parte, la più sono-una-di-voi che ci sia, più solida della Ferragni e più alla mano di Elisabetta Franchi (uno dei cui slogan è «se vuoi, puoi», che è un altro modo di raccomandare a tutti i mitomani di continuare a credere nei loro sogni). Continua a credere nei tuoi sogni, continua il tuo viaggio nei sentimenti, hai fatto un bel percorso, stai lavorando su te stessa, se vuoi puoi, crederci sempre arrendersi mai.

Il piatto del giorno è fatto da tanto di quel tempo di quegli ingredienti – «crederci sempre, arrendersi mai» era lo slogan di Simona Ventura all’Isola dei famosi, era vent’anni fa – che proprio non so come abbia fatto la sinistra a farsi sorprendere da Giorgia Meloni, che un anno e mezzo prima di vincere le elezioni aveva pubblicato un’autobiografia in cui c’era già tutto: «La sfida che ho imposto alla mia vita è riuscire a rimanere me stessa» (pagina 10), «Mentire a te stesso non fa bene» (pagina 28), «Le persone devono credere in te per chi sei davvero, non per chi fingi di essere» (pagina 122), «Come appari rischia di essere più importante di quello che dici» (sempre 122).

Qualunque buonsenso un tanto al chilo in lessico elementare che paghiate uno psicologo centoventi euro l’ora (ottanta in nero) per farvi dire e sentirvi compresi e saggi, stimati e valevoli, dalla parte della ragione contro gli ostacoli della vita, qualunque cliché con simulazione di profondità dei vostri influencer preferiti e dei sacerdoti di quella religione che è la psiche, tutto il pacchetto stava già lì dentro. Perdipiù Giorgia neanche faceva la testimonial di beneficenza: era evidente che fosse lei l’influencer fatta per durare, mica Chiara.

Perciò non possiamo stupirci se poi il suo consiglio alla pugile è di credere nei suoi sogni. Anche perché, se dobbiamo essere obiettivi, la stessa frase alla pugile potrebbero dirgliela Sergio Mattarella e Maria De Filippi, Alberto Angela e Samantha Cristoforetti: che Grande Indifferenziato sarebbe, se il lessico non fosse lo stesso per tutti, se le ambizioni un tanto al chilo non fossero concesse a chiunque e codificate con le stesse frasi rassicuranti?

A sinistra, invece, vorranno raccontarsi i miei piccoli lettori. Qualche giorno fa Matteo Lepore, il sindaco di Bologna fortissimo sui circenses e così così sul pane, è andato a visitare un palazzo in cui, se ho capito bene, verranno creati degli alloggi popolari. In una città la cui sinistra è totalmente americanizzata e lascia che dei poveri si occupino i ricchi, che costruiscono ospedali o mense popolari, che l’amministrazione si ricordi che c’è gente che non ha casa è sorprendente. Ma non quanto lo è il video che il sindaco – che se non s’instagramma teme di non esistere, come tutti i politici del presente, tutti aspiranti influencer purtroppo meno talentuosi di Giorgia – fa quella sera per raccontarci che è stato a visitare questa realtà alla quale è importante fornire aiuto, anche perché tra le persone sfrattate ci sono «donne incinta».

Matteo Lepore è del 1980. Ha fatto le elementari in anni in cui in Emilia ci raccontavamo ci fossero le migliori elementari del mondo. Ha fatto il Galvani, che ai miei tempi ci raccontavamo fosse il liceo classico più difficile di Bologna. Si è laureato in Scienze politiche all’università più antica del mondo. Ha fatto tutto questo percorso («percorso»: indifferenziata anche io) senza mai apprendere che «incinta» è un aggettivo della lingua italiana, e quindi si declina, e quindi, allorché plurali, le donne sono «incinte». Certo che è un errore diffuso. Certo che potrebbe farlo Lino di Temptation Island o un qualunque concorrente del Grande fratello (dei concorrenti non so farvi i nomi perché, da quando i politici sono sgrammaticati quanto il proletariato esibizionista che partecipa ai reality, non ho più alcun bisogno di guardare i reality: Pasolini oggi racconterebbe i consigli comunali, mica le borgate).

Matteo Lepore dice «donne incinta» (i sottotitoli caritatevolmente correggevano in «incinte», e io mi chiedo da giorni se li abbia fatti uno stagista che è stato più attento di lui alle elementari, o se siano automatici e l’Intelligenza Artificiale abbia quindi già superato in cultura generale gli amministratori locali), e a me vengono subito in mente i gruppi Facebook di mamme, mia finestra preferita sull’analfabetismo diffuso. Nei gruppi Facebook di mamme c’è un numero spropositato di donne che, invece di “cesareo”, scrivono “cesario”. Sono probabilmente donne poco istruite e che non si candideranno a sindaco o ad altro, ma mi colpisce perché, lo si capisce dalla foga con cui partecipano, la maternità è il loro principale argomento di conversazione.

Eppure sono riuscite a restare immuni alla consapevolezza che il parto chirurgico si chiami “cesareo”, ci sono riuscite passando le giornate a leggere testimonianze sul parto, discussioni sul parto, articoli sul parto. D’altra parte le mie tasse pagano e hanno pagato l’università a Lepore e a chissà quanti altri convinti che quella che in Italiano indica la gravidanza sia una cinta, sei in una cinta e quindi non ti declino al plurale, la cinta è sempre una, invariabile (forse c’è un’altra spiegazione a questo svarione, ma non mi viene in mente). A meno che non sia come ipotizza una mia amica saggia: che le gerarchie esistono ancora, che la verticalità funziona, e quindi il bolognese medio che aveva finora correttamente detto «donne incinte» ora dirà a sé stesso perbacco, si dice «incinta» anche al plurale, l’ho appreso dall’autorevole sindaco, mica si sbaglierà, che ignorante che sono, mi correggo subito.

Domani, ci sarà una ragazza che stava per astenersi dalla mitomania: stava per non pensare che il suo romanzo che nessun editore vuole fosse tale perché troppo bello, anche Il Gattopardo restò inedito fin dopo la morte dell’autore; stava per non credere che le sue doti d’artista fossero sottovalutate perché anche Van Gogh faceva la fame. La ragazza stava per ridimensionare le sue ambizioni senza talento, ma poi dirà devo credere nei miei sogni, l’ha detto anche la presidente del Consiglio, se non lo sa lei. Il portato principale del Grande Indifferenziato del lessico è questo qui: che ci tocca sperare che il principio d’autorità sia andato definitivamente a puttane, perché se per caso la società dà minimamente retta alle parole di chi la governa, se per caso credono che quelle dette da chi è in posizioni di rilievo siano le parole giuste, beh, cari miei, siamo rovinati.

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