di Giulio Zoppello (esquire.com, 24 giugno 2024)
Fahrenheit 9/11 quando uscì, vent’anni fa, generò un tale vespaio che oggi si fa fatica a credere che questo documentario, premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes presieduto da Quentin Tarantino, sia esistito veramente. Viene anche da chiedersi se abbia avuto conseguenze esclusivamente positive e non anche negative.
Michael Moore, il 25 giugno del 2004, fece arrivare in sala quello che è ancora oggi un vero e proprio manifesto della controcultura. Non fu un semplice documentario civile e di satira politica, ma un atto di resistenza contro la Presidenza Bush, e più ancora contro il fronte conservatore, che in quegli anni avrebbe cominciato la sua metamorfosi, avvicinandosi sempre più a posizioni radicali, per non dire eversive. Lo stesso Donald Trump, bene o male, è anche un prodotto di quel momento storico, in cui il Partito Repubblicano guidò l’America verso la fallimentare Guerra al Terrore.
Moore si era già distinto come uno dei registi più originali con documentari come The Party is Over, The Big One e quel Bowling for Colombine che aveva avuto un impatto senza precedenti sull’opinione pubblica americana. Ma, certo, nessuno poteva immaginare che rovistando tra i panni sporchi dell’amministrazione americana, cercando le connessioni tra la famiglia Bush e quella bin Laden, il complicatissimo intreccio che legava Stati Uniti e Arabia Saudita, Moore sarebbe riuscito a creare l’ultimo, vero, grande documentario del cinema moderno.
Già dal titolo, connesso a Farenheit 451 di Ray Bradbury, Michael Moore fece capire perfettamente il suo punto di vista, in quel 2004 dove, ancora sulla cresta dell’onda, George W. Bush aveva portato all’ordine del giorno non solo la lotta al Terrore, ma anche un grande autoritarismo politico e il famigerato Patriot Act. Michael Moore come al suo solito si muove dall’alto al basso, intreccia micro-narrazione con macro-narrazione, abilmente più che trasfigurare ci mostra il volto reale del potere, di una delle più mediocri amministrazioni della Storia. A capo c’è il figlio di un ex Presidente, immortalato nel momento in cui, informato degli attacchi alle Torri Gemelle, appare completamente perso, oppure cinicamente convinto di dover rimanere lì, ad ascoltare la storia di una paperella su cui poi Leslie Nielsen avrebbe costruito una delle sue più grandi parodie.
Fahrenheit 9/11 stupisce ancora oggi per la capacità di allargare la visione, non si ferma alle malefatte dell’amministrazione Bush, alla parzialità totale delle indagini sugli attentati, alla disinformazione operata dai media, che alimentano un clima di terrore tanto caotico quanto utile alla Presidenza per cancellare ogni opposizione interna ed esterna. Moore, con Fahrenheit 9/11, mette sul banco degli imputati l’America come società, sempre in cerca di un nemico da combattere, onde evitare che qualcuno, magari, si ponga delle domande scomode.
Fahrenheit 9/11 non era esente da difetti, come l’eccesso di romanticismo, lo sguardo fin troppo presente del regista, la semplificazione del panorama internazionale. Eppure, ancora oggi è un’opera cinematografica impareggiabile per la verità semantica contenuta in essa, per aver illuminato l’America sulla diseguaglianza sociale, che diventa giocoforza anche diseguaglianza di fronte alla guerra. I figli dei potenti non ci vanno mai, sono i figli del popolo a morire in Afghanistan e in Iraq, i due disastri che abbiamo ereditato da Bush. Sono passati vent’anni, pare un’altra epoca quella in cui guardavamo Colin Powell mentire spudoratamente di fronte alle Nazioni Unite, Condoleezza Rice, Donald Rumsfeld, il vicepresidente Cheney e tutto il resto di quella classe politica semplicemente disastrosa, portarci allegramente verso il gorgo di orrore, errori e caos di cui oggi paghiamo il prezzo tutti quanti.
Il lato più sinistro di Fahrenheit 9/11, però, è nel momento in cui ci illumina sulla stessa realtà che anche Oliver Stone, con JFK prima e W. poi, ci aveva posto di fronte agli occhi: la guerra è il più grande affare per l’America, per una certa America, quella delle grandi conglomerate, delle grandi aziende per le quali il disastro del Medio Oriente è un’opportunità, ivi comprese quelle dove i Bush e tanti altri del fronte conservatore hanno quote, interessi personali. Petrolieri, finanzieri e banche sono l’oscura massa che sta dietro ad ogni fronte politico, adattandosi di volta in volta. Qualcosa che, in seguito, anche Adam McKay con Vice avrebbe mostrato nel dettaglio. Corsi e ricorsi storici: non si può non pensare ad Eisenhower, che mise in guardia il popolo americano dall’asse creatosi tra il mondo economico e il potere esecutivo già nei primi anni Sessanta.
Michael Moore ci illumina sulla sconfitta di quella profezia, che egli stesso impugna, mentre ci mostra i metodi di reclutamento di sergenti che promettono di tutto ai figli abbandonati dei ghetti delle minoranze. Sono loro la carne da macello della Presidenza Bush, quella che annuncia fiera la vittoria in Iraq per poi farli sprofondare in un inferno fatto di attentati, instabilità, teorie bislacche. La banalità del male è un’espressione così abusata oggi, eppure in pochi film come Fahrenheit 9/11 tale formula è tanto più adatta. Assieme, ecco la paura. Ed è la paura forse il grande tema sotterraneo del film di Moore, la paura è ciò che allora teneva assieme l’America, ed è lo strumento del potere che anche Martin Scorsese mette addosso agli uomini che comandano.
House of Cards di tutto questo avrebbe fatto tesoro, portandoci in un mondo molto simile a quello che Moore ci mostrava essere reale. Ma cosa è reale? Cosa è fittizio? Forse le elezioni che permettono a Bush di vincere, ci spiega Moore, il fratello che con ogni trucco ostacola la democrazia per aiutarlo. La Patria degli uomini liberi? Non sono più liberi, non se sei uno “degli altri”, e con questa formula nel 2004 si indicava tutti e nessuno. La paura, appunto. «Se la gente ha paura» sentenzia Moore «controllarla è facilissimo».
Fahrenheit 9/11 si muove su quella linea invisibile che separa la negazione della retorica del patriottismo, la controcultura informativa, con il complottismo. Perché, e questo è un altro dato di fatto innegabile, Fahrenheit 9/11 ha avuto il merito di risvegliare le coscienze e parlarci della verità politica su un’epoca, ma senza volerlo ha contribuito in certa misura a quell’arsenale fatto di fake news, menzogne, teorie astruse e negazione della verità che, paradossalmente, proprio la destra da lui tanto odiata impugna oggi ovunque nel mondo. Fahrenheit 9/11 avrebbe incassato 230 milioni di dollari, come nessun altro documentario, e sarebbe diventato un caso unico nel suo genere.
Nelle sue opere successive con Capitalism: A Love Story, Michael Moore in TrumpLand, Fahrenheit 11/9, il regista avrebbe continuato con lo stesso stile, sia pure con risultati minori. Fahrenheit 9/11 rimane oggi il reperto di un’epoca passata. I social non esistevano ancora, il mondo del web era qualcosa di presente ma epidermico, la sinistra politica di cui Michael Moore era scomodo rappresentante ha perso completamente il contatto con la realtà. Eppure ci vorrebbe un altro come lui oggi, capace, con un film fatto con tante idee e attributi, di metterli di fronte alle loro responsabilità, e di farci capire che la democrazia in cui crediamo non esiste più.