di Saverio Raimondo (ilfoglio.it, 14 novembre 2023)
Quando l’altra sera, nel suo patetico incedere nello studio di Che tempo che fa da Fabio Fazio sul Nove, Beppe Grillo, fra lo smarrito e il paraculo, ha chiesto al pubblico in studio se vogliamo che lui faccia il politico o il comico, il pubblico (stanco e un po’ annoiato da quel delirio vaneggiante e auto-assolutorio) ha risposto in coro “il comico” a uno che per mezz’ora non ha detto nemmeno una battuta, non ha fatto una gag, non ha detto nulla che fosse divertente.
Andrebbe studiato – dagli antropologi? dai sociologi? dagli psichiatri? – il modo in cui gli italiani continuano a farsi manipolare da quell’uomo, ostaggi dei suoi problemi personali. Sì perché Grillo ha detto al pubblico di essere a un bivio, quando invece si trova nel bel mezzo di una rotatoria e con ben tre uscite; e la direzione giusta da prendere sarebbe proprio la terza: quella del ritiro a vita privata, dopo anni di onorata carriera nel mondo dello spettacolo e altrettanti di disonorevole disservizio civico. Ho sempre sostenuto che il MoVimento 5 Stelle fosse solo il sintomo della crisi creativa di un artista finito, e che di realmente politico aveva solo il fatto di aver intercettato lo spirito (populista) dei tempi.
Così oggi, il “ritorno sulle scene” di Beppe Grillo è invece il risultato della crisi politica di un attivista (o meglio: dell’insoddisfazione di un narcisista privo degli strumenti culturali o anche solo cognitivo-comportamentali per affrontare la cosa da solo); mentre non vi è alcuna traccia di esigenza creativa, di guizzo artistico, d’ispirazione o capacità di fare ancora spettacolo a livelli professionali. Ha ragione Beppe Grillo, quando dice di aver fallito e rovinato questo Paese; ma questo fallimento è stato prima di tutto quello personale di un uomo di spettacolo incapace di accettare il proprio declino; e non ho dubbi che lui abbia rovinato più la scena comica italiana che quella politica – la quale già non godeva di buona salute quando Grillo “scese in campo”, e che sarebbe degenerata da sola anche senza il suo (pur decisivo) contributo.
Beppe Grillo come comico era finito già negli anni 2000, quando i suoi spettacoli (ancora di successo) erano più le adunate di un guru che dei recital comico-satirici. Grillo ha tradito e minato alle fondamenta l’etica del suo vecchio mestiere: ha chiesto al pubblico di prenderlo sul serio, cioè la negazione del comico. Generando così un danno incalcolabile, culturale, di cui ancora oggi a pagarne le conseguenze sono il pubblico e i comici autenticamente tali, chiamati a rifondare un’arte ormai equivocata dai più.
La mia modesta proposta, se Grillo proprio non vuole saperne di starsene a casa – anzi, in villa –, è che a questo punto resti pure in politica; tanto, il danno è fatto e a questo punto sarebbe anche giusto che rimanesse a prendersi le pernacchie che si merita. Del resto, Grillo sbaglia quando dice che il suo fallimento sta nel fatto che chi ha mandato “affanculo” ora è al governo; il suo contributo negativo alla politica è stato portare in Parlamento (e al governo) chi quei governanti li mandava affanculo; con il risultato che ce li ha fatti rivalutare e votare, tanto erano scarsi e peggiori questi altri. Il pagliaccio nell’opera di Leoncavallo, o il Calvero di Chaplin nel malinconico Luci della ribalta, hanno fatto un’uscita di scena assai più dignitosa di quella miserabile del fu Beppe Grillo.