di Valerio Moggia (linkiesta.it, 28 giugno 2023)
Il calcio combatterà l’antisemitismo. È questo il succo dell’annuncio fatto ieri da governo e Figc. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il ministro dello Sport Andrea Abodi, il coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo Giuseppe Pecoraro e il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina hanno presentato ufficialmente una dichiarazione d’intenti per la lotta alle discriminazioni contro gli ebrei negli stadi italiani.
Un primo dato da segnalare, e che restituisce bene le dimensioni del problema, è che questo provvedimento – per ora, appunto, solo una dichiarazione d’intenti – arriva trentaquattro anni dopo il caso di Ronny Rosenthal, il calciatore israeliano che nell’estate del 1989 cancellò il suo trasferimento all’Udinese dopo essere stato accolto in Friuli da svastiche e scritte antisemite. Nell’ultima stagione, evidentemente, la questione è diventata troppo palese per continuare a fare finta di nulla.
Lo scorso settembre, quasi in contemporanea ci sono stati due episodi di cori antisemiti in Serie A, uno da parte di alcuni tifosi della Juventus contro quelli della Fiorentina, e un altro da parte di alcuni sostenitori dell’Inter contro quelli del Milan. Lo scorso marzo c’è poi stato il caso del tifoso laziale fotografato all’Olimpico mentre indossava una maglietta biancoceleste con su scritto “Hitlerson” e con il fantomatico numero 88. È significativo che quest’ultimo sia l’unico episodio in cui il responsabile sia stato identificato e condannato anche dal club.
Il numero della discordia
Proprio quel numero di maglia è tra i punti su cui il Viminale ha intenzione di concentrare i suoi sforzi: ai calciatori non sarà più permesso indossare magliette col numero 88, una mossa che ambisce a diventare il simbolo dell’intero provvedimento. Il motivo è che l’88 è da tempo una nota simbologia neonazista, in quanto l’ottava lettera dell’alfabeto è la “h”, e quindi la sigla “HH” sta per “Heil Hitler”. Un modo per celare un messaggio di appartenenza politica sotto un’aura innocua.
Nel calcio, il caso “Hitlerson” non è stato certo il primo riguardante l’88. Nell’estate del 2000 il portiere del Parma Gianluigi Buffon decise di indossare quel numero, sollevando forti polemiche da parte della Comunità ebraica di Roma, che lo convinsero a ripiegare, a settembre, sul 77. Il giocatore spiegò che la sua non era stata una scelta politica, ma che l’88 indicava “quattro palle”, simbolo della forza che ci aveva messo per recuperare dal suo ultimo infortunio.
La dichiarazione d’intenti firmata dal governo e dal mondo del calcio non si limita comunque a questo divieto. Uno degli aspetti meno pubblicizzati è che Figc e Serie A adotteranno nel proprio codice etico la definizione internazionale di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance. Anche in questo caso, viene da domandarsi come mai sia stato necessario attendere fino al giugno del 2023 per arrivare a un traguardo così semplice. Il documento redatto prevede anche un divieto di esporre simboli neonazisti e antisemiti, e l’interruzione delle partite in presenza di cori discriminatori. Solo che questi ultimi due punti già esistevano in precedenza.
La Legge Mancino del 1993 contro i crimini d’odio formalmente infatti sanziona il ricorso a simbologie neonaziste, razziste e antisemite: ci sarebbe da interrogarsi, semmai, sulla sua applicazione, e magari studiare eventuali modifiche e aggiornamenti. Anche l’interruzione delle partite per cori discriminatori è già prevista nel regolamento del calcio italiano, ma finora non è mai stata applicata, perfino quando ce ne sarebbero state le premesse (i casi recentissimi di Romelu Lukaku e Dusan Vlahović ne sono un esempio perfetto). Ecco perché, oltre al divieto per la maglia numero 88, questo documento sembra avere poca o nulla consistenza.
Questioni che non si sanno affrontare
Il problema sembra essere sempre il solito. La politica italiana, nel calcio e non solo, non sembra in grado affrontare le discriminazioni. Le ultime stagioni della Serie A hanno donato al nostro campionato la fama internazionale di più razzista d’Europa, sia per gli episodi che avvengono in campo, sia per quelli che avvengono fuori da esso e hanno radici più istituzionali (dalle battute razziste dell’ex-presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio alla celebre campagna delle tre scimmie). Gli strumenti per affrontare le discriminazioni si rivelano spesso inadeguati, e anche quelle poche volte che potrebbero venire utilizzati ciò non avviene.
A questa inadeguatezza delle istituzioni calcistiche italiane corrisponde poi anche quella delle istituzioni politiche, che Piantedosi e Abodi rappresentano in questo momento. Ogni norma contro l’antisemitismo e il razzismo merita di essere bene accolta, ma l’impressione è che si cerchi di ripulire la facciata di un palazzo ormai disastrato. Se il calcio ha bisogno di un cambio più radicale, probabilmente anche nei volti dei suoi dirigenti, non va dimenticato che la vera riforma dovrebbe essere culturale, ed è qualcosa che difficilmente questo governo potrà attuare. Da partiti come Fratelli d’Italia e Lega proviene gran parte della propaganda razzista che si sente in Italia: la premier Giorgia Meloni rivendica spesso come propria l’eredità politica di Giorgio Almirante, che firmò e sostenne pubblicamente, quand’era già adulto e pienamente consapevole, le leggi razziali contro gli ebrei.
Le radici culturali dell’antisemitismo e del razzismo in Italia sembrano fin troppo robuste per venire recise da una vaga e ridondante dichiarazione d’intenti. Che, piuttosto, sembra sostenere una narrazione politicamente molto più comoda: quella delle discriminazioni come un problema del calcio e da affrontare nei limiti del suo steccato, invece che una problematica che si riflette soltanto nello sport nascendo però al di fuori di esso.