di Alice Valeria Oliveri (esquire.com, 12 giugno 2023)
«Un palazzinaro che non conosce niente di televisione», diceva Mike Bongiorno a proposito delle sue prime impressioni su Silvio Berlusconi, prima di accettare il ruolo di presentatore di punta delle reti Fininvest. Il presentatore dell’allegria era tutto ciò che serviva all’imprenditore milanese per dare vita al suo sogno, una televisione privata che facesse per la prima volta da concorrente all’istituzionalità pedagogica e democristiana della Rai.
Ciò che Bongiorno aveva in più rispetto ai suoi colleghi, oltre alla voce e al volto dell’everyman, come lo aveva definito Umberto Eco negli anni Sessanta, era il legame con gli Stati Uniti, terra dell’abbondanza, delle televisioni commerciali, della pubblicità, del consumo. Era questo che voleva costruire Silvio Berlusconi con la sua idea di televisione, una gigantesca fabbrica di desideri che si sarebbero trasformati in acquisti, un universo parallelo di idoli, immagini e suoni in cui ciascuno potesse riconoscersi attraverso il consumo, anche quando non si riconosceva in lui. Era il sogno americano a forma di biscione.
Per prima cosa Telemilano, poi Canale 5, Italia 1 e infine Rete 4. Le televisioni diventavano il mezzo di comunicazione per eccellenza del piccolo mondo idilliaco composto da elettrodomestici, comfort e laghetti dei cigni di Milano 2. Nel giro di pochissimo tempo, dalla fine degli anni Settanta alla prima metà degli anni Ottanta, grazie al suo legame con Bettino Craxi e con il Psi, Berlusconi supera ogni ostacolo che gli si presenta davanti nella costruzione dell’impero fatto di serie televisive americane, soap opera, film stranieri, quiz e varietà. I pizzoni spediti per eludere la legge dell’interconnessione, le televisioni accese per gonfiare gli ascolti, tutto è funzionale alla missione finale di dare all’Italia un’alternativa valida al grigiore dei canali di Stato.
E infatti, nel 1984, non appena in alcune regioni vengono oscurati i canali Mediaset, si alza la sommossa, la cosiddetta “Guerra dei Puffi”: il pubblico delle reti di Berlusconi, ormai grande a sufficienza da potersi considerare una vera e propria comunità, vuole i suoi cartoni animati, vuole Dallas, vuole Dynasty. La prima vera prova della rivoluzione culturale che il futuro presidente del Consiglio aveva messo in atto era tutta lì, nella sete di programmi che si accendeva non appena qualcuno chiudeva il rubinetto del biscione.
«I tecnici Rai non hanno il know-how», spiegava un Silvio Berlusconi rampante con il mullet e il doppio petto inamidato a una conferenza di fine anni Settanta. La contrapposizione tra pubblico e privato, tra Stato e imprenditore, leitmotiv di tutta la sua carriera non solo in termini televisivi e imprenditoriali ma presto anche politici, è l’unica chiave di lettura sensata che si può dare all’egemonia culturale che ha esercitato “Il Caimano” nei decenni successivi. Sradicare tramite le immagini ipnotiche e ammalianti, “nani e ballerine”, il principio stesso di autorità contrapponendogli quello di libertà: se la Rai ti dà l’ombelico della Carrà, Mediaset ti offre le cosce di Carmen Russo, più a lungo, più scoperte, più sexy.
Negli anni Ottanta, i programmi lanciati da Canale 5 sono un tripudio di nudità e sfarzo, una festa di colori e di volti noti e beati che presto vanno a comporre un olimpo di celebrità, un vero e proprio star system di cui si nutre e auto-alimenta il multiverso Fininvest curato in prima persona e in ogni dettaglio da Berlusconi, presente anche nella messa in scena. Da Drive In a Striscia la notizia, da Marco Columbro al pupazzo Uan, da Iva Zanicchi e il suo Ok, il prezzo è giusto! ai programmi spudoratamente ispirati ai format americani come Buongiorno Italia, calco di Good Morning America. Persino Pippo Baudo e Raffaella Carrà, fedeli soldati della tv di Stato, cedono alle lusinghe del Cavaliere, anche se per poco tempo, abbandonando le fila dell’esercito Rai per concedersi il lusso del privato. E così, i Telegatti diventano i nostri Oscar, Cologno Monzese la nostra Hollywood.
Nei suoi decenni di formazione e di imposizione a livello nazionale – e internazionale, non dimentichiamo La Cinq e Telecinco –, Mediaset si è espansa sia in larghezza sia in altezza. In orizzontale, chiamando a sé qualsiasi tipo di pubblico, soprattutto quello dimenticato e mal gestito da mamma Rai, le casalinghe con la televisione accesa al mattino, conquistate con i vari Ridge e Brooke che tengono loro compagnia nella solitudine alienante del lavoro domestico. Così come adolescenti e bambini, attraverso serie televisive e film comprati dagli Stati Uniti che raramente passavano dai primi tre canali, privi di quarterback e cheerleader, sprovvisti dei vari maverick del caso nel periodo del reflusso e dell’edonismo sgorgante. Senza dimenticare ovviamente il pubblico maschile, ammaliato dalle centinaia di showgirl messe al servizio dello spettacolo, in qualsiasi declinazione l’occhio maschile potesse desiderare: l’ingenuità infantile di Antonella Elia, la sensualità svampita di Lory Del Santo, le adolescenti trepidanti di Non è la Rai, che capitanate dall’entusiasmo di Ambra Angiolini si premuravano di fare anche campagna elettorale in vista delle elezioni del 1994: «Il Padreterno tiene per Berlusconi, Satana tiene per Occhetto».
Dal punto di vista verticale, invece, l’ecosistema Mediaset si regge sulla formazione di un’iconografia precisa e mai tradita. Sia che si tratti del pubblico del Costanzo Show, altro nome che Berlusconi rubò con lungimiranza dalla scuderia Rai, sia che si tratti dell’estetica del reality messa in campo con l’arrivo del nuovo millennio, vero e proprio reset culturale per quanto riguarda le gerarchie tra significante e significato del mezzo televisivo, il mondo delle Reti Fininvest è un mondo a sé stante con una grammatica tutta sua. L’ambizione verso cui spinge lo spettatore è quella della possibilità: la ricchezza di Berlusconi, resa materiale e tangibile in studi televisivi, scenografie e personaggi, è un desiderio accessibile, è vicino, non incute timore, non crea un senso di inferiorità. Le donne del Bagaglino sono a un passo da chi le guarda e le desidera, lo sforzo di comprensione e di immedesimazione nel dibattito pubblico che prende vita in salotti e ritrovi vari della domenica è ridotto al minimo.
La gerarchia tra spettatore e trasmissione è invisibile, tanto sottile da essere praticamente invertita nella grande prateria dei programmi decennali di Maria De Filippi, dove ad andare in scena non sono neanche la scrittura e la formalità della rappresentazione televisiva classica, con i loro tempi e codici, ma la sostanza stessa della quotidianità. Massimiliano Panarari chiama “egemonia sottoculturale” quella delle televisioni berlusconiane, e in effetti è dal basso che viene la sua rivoluzione, non in senso democratico né tanto meno gramsciano, ma in termini di consumo grossolano e immediato. Capire cosa vogliono la casalinga di Treviso, il bracciante lucano, il pastore abruzzese, per citare un altro film di Nanni Moretti, e metterglielo davanti senza chiedere loro nessuna fatica se non quella di aspettare qualche minuto in più, giusto il tempo di uno spot.
Cosa resta allora di questo universo Mediaset, con la televisione che perde il suo predominio sui mezzi di comunicazione, con la realtà frammentata dalla disintermediazione e i contenuti sparpagliati nelle miriadi di piccole galassie di Internet? Restano una Weltanschauung, un set di pentole e un montepremi, una risata demenziale e rampante in stile Drive In e una musichetta di sottofondo come in un video di Paperissima. Resta un’eredità radicata e collettiva che non finisce con la morte del suo creatore, quel palazzinaro che non sapeva niente di televisione ma che in realtà sapeva tutto, perché sapeva cosa volevano le persone e sapeva come darglielo subito, senza preoccuparsi di ciò che sarebbe venuto dopo, senza il timore di scendere troppo in basso. E resta il sogno a portata di mano, che si accende con un pulsante e che ti dice “Corri a casa in tutta fretta, c’è un biscione che ti aspetta”.