Il filosofo: «Sto con Kim Kardashian. Incarna l’essenza della celebrità»

Slavoj Žižek e la difesa della star dei reality americani: «È facilissimo prenderla in giro ma il suo esibizionismo spudorato è più onesto di quello di Angelina»

di Slavoj Žižek (corriere.it, 6 ottobre 2016)

Quando si è saputo che Kim Kardashian era stata legata e derubata dei suoi gioielli in un lussuoso residence parigino, il celebre stilista Karl Lagerfeld l’ha criticata per lo sfoggio eccessivo che fa della sua ricchezza. Pertanto era lei stessa in parte responsabile di quanto accaduto.«Perché vive sotto lo sguardo pubblico, ahimè sono questi i nostri tempi. È impossibile sfoggiare la propria ricchezza e poi meravigliarsi che ci sia chi se ne vuole approfittare. Se sei famosa e metti in mostra i tuoi gioielli sui social, è meglio scegliere un albergo dove nessuno possa avvicinarsi alla tua stanza». Per quanto io trovi Kim Kardashian, come personaggio pubblico, terribilmente imbarazzante e priva di buon gusto, ciò non toglie che il commento di Karl Lagerfeld suoni deplorevole, accusandola per così dire di mescolarsi alla gente comune, colpevole di non isolarsi dal resto del mondo. Se c’è un lato positivo nella personalità di Kim, è proprio questa disponibilità ad andare incontro agli altri e a mescolarsi con il pubblico. Qandeel Baloch, la star pachistana dei social, strangolata dal fratello che voleva punirla per la sua eccessiva esposizione mediatica, amava definirsi «la Kim Kardashian pachistana» oltre che «una femminista moderna».

Il senso dell’esibizione

Circola una vecchia storia su un operaio sospettato di furto: ogni sera esce dal lavoro spingendo la carriola, la quale viene ispezionata dalle guardie, che non riescono mai a trovare niente. Finché un giorno non mangiano la foglia: l’operaio ruba le carriole… Le guardie perdevano di vista l’oggetto evidente delle loro ricerche, come fanno gli osservatori che studiano le sommosse popolari alla ricerca del loro significato nascosto. E dello stesso errore si macchia chi scava per trovare un senso sociale alle esibizioni di Kim, senza capire che il senso sta nella stessa modalità dei suoi show.

Il prodotto e l’immagine

Come personaggio pubblico, Kim è una di quelle incarnazioni di ciò che Jeremy Rifkin chiamava «capitalismo culturale», in cui il rapporto tra un oggetto e il suo simbolo-immagine viene capovolto: l’immagine non rappresenta più il prodotto, ma anzi, il prodotto rappresenta l’immagine. Noi acquistiamo un prodotto — diciamo, una mela biologica — perché rappresenta l’immagine di uno stile di vita salutare. Allo stesso modo, il motivo principale per cui tante persone ancora oggi continuano a fare acquisti nei negozi «veri» non è tanto perché possono «vedere e tastare» il prodotto, ma perché possono godersi il curiosare come attività ricreativa. All’orario di chiusura serale, nei negozi Walmart vengono rinvenute decine di carrelli della spesa, traboccanti di oggetti, abbandonati tra le corsie. Sono stati lasciati dai componenti di quella classe media impoverita, persone che non sono più in grado di comprare e si recano nei negozi per dedicarsi al rito della spesa (accumulando nel carrello ciò di cui hanno bisogno o vorrebbero acquistare), e poi, prima di passare alla cassa, lasciano il carrello e se ne vanno. Con questo sistema si godono il Mehrlust della spesa nella sua forma più pura, senza acquistare. Ciò che deriviamo nell’assistere agli show di Kim Kardashian è qualcosa di simile: la forma pura della celebrità, senza alcun contenuto specifico che ne giustificherebbe l’esistenza.

I diritti umani e i Dieci comandamenti

E allora, perché mai lo sfoggio pubblico di Kim rappresenta una tale offesa agli integralisti religiosi? Come dimostra la nostra società liberal-permissiva, i diritti umani sono in ultima analisi il diritto a violare i Dieci comandamenti. «Il diritto alla privacy» equivale al diritto all’adulterio, consumato in segreto. «Il diritto alla felicità individuale e al possesso di proprietà privata» è il diritto al furto (e allo sfruttamento del prossimo). «La libertà di stampa, opinione, espressione» incarna il diritto a mentire, calunniare e umiliare gli altri. «Il diritto dei liberi cittadini al possesso di armi» significa il diritto di uccidere. E infine, «la libertà di religione» significa il diritto ad adorare false divinità. Ovvio, i diritti umani non condonano esplicitamente la violazione dei Comandamenti, si limitano a tenere a disposizione una «zona grigia» marginale, che dovrebbe rimanere fuori dagli assalti del potere (religioso o secolare). In questa zona fumosa posso violare i comandamenti e se il potere si intromette ecco che posso legittimamente gridare: «Questo è un attacco ai miei diritti umani fondamentali!». Kim Kardashian appartiene a questa stessa zona grigia: con la sua volgarità viola tutti i comandamenti del buon gusto, ed è per questo che molti di noi la trovano irresistibile.

La fama costruita sul nulla

È fin troppo facile prendere in giro la povera Kim: è insulsa, la sua spontaneità è finta, non è mai lei stessa (ciò che è veramente), ma recita se stessa, proiettando un’immagine idealizzata. È facile puntare il dito sulla sua fama costruita sul nulla, dire che è famosa solo perché così appare, ma non sarà forse che lei incarna quello che tutte le «persone famose» hanno in comune nelle società consumistiche? Prendiamo quella che potrebbe apparire all’estremo opposto di Kim: Angelina Jolie, con i suoi impegni umanitari per salvare queste o quelle vittime in giro per il mondo. Mentre tutti si fanno beffe di Kim, la Jolie viene ricevuta dai capi di Stato e pare che l’anno prossimo terrà una serie di lezioni alla London School of Economics. Per me, Jolie solleva qualche dubbio. Mentre sia Kim che Jolie sono protagoniste attive del culto della celebrità, Jolie aspira al meglio di entrambi i mondi. Da un lato sfrutta il culto della celebrità e dall’altro si sforza di smorzare questo aspetto proponendosi come agente di cause «alte». La vera oscenità non è l’esibizionismo spudorato di Kim, ma la Jolie che ama presentarsi come personaggio etico-politico genuino.

Il consumatore consapevole

Farsi beffe di Kim ci fa dimenticare che la stupidità da noi proiettata in lei altro non è che la sostanza da noi tutti condivisa. Ricordiamo la battuta di Brecht, dall’Opera da tre soldi: «Cosa sarà mai una rapina in banca, in confronto alla fondazione di una nuova banca?». Cosa sarà mai l’oscenità di Kim in confronto all’oscenità che pervade tutte le celebrità che si prestano a sostenere cause umanitarie? E se disprezzare Kim facesse parte integrante della sua celebrità? E se il consumatore ideale dei suoi show e dei suoi social non fosse un ingenuo adoratore, ma un consumatore consapevole che, pur sapendo quanto sia volgare, continua a seguire le sue vicende e a godersi il senso di superiorità che tale conoscenza gli garantisce?

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